IL PARALITICO DI VIA DELL'ARMATA
FOLLIE DI UNA NOTTE A VIA GIULIA
DUE BORBONI IN S. SPIRITO DEI NAPOLETANI
RICEVO in data 14 Gennaio 2015 questa poesia che molto volentieri pubblico
La Musa di Via Giulia
Per i 500 anni di Via Giulia in Roma
Gianna Forlizzi
Un filo d’ombra investe di silenzio
mattoni del color della terraglia
l’edera arrampicata sull’argilla
e pietre che un remoto cielo
raramente infiamma.
Negli eremi segreti dei cortili
oltre i cancelli e la rete delle grate
un senso quasi di dimenticanza:
deserto il portico
solitario il giardino
e muta l’impettita erma rapace 1
e le invisibili ninfe divaganti
latenti nella magica cornice.
Dimore nel passato assorte
affiorano
nel velo di immutabile apparenza
inondata di pace.
Solo l’infrange il monito
dei capitelli incoronati a morte
e l’incipit insistente dell’anafora
che l’oratorio2
al trapassar di un’anima scandisce.
Spiriti
che l’imbrunire suscita viventi
l’incenso sui marmi di diaspro
e intreccio d’ali di un’acquasantiera.3
Ma la falce argentata della luna
che al corso del fiume si compiace4
rivolge ai gigli incisi sugli stemmi
e alle pendule rose delle altane
il volto suo etereo di perla.
Estro che al travertino si compenetra
nei lignei soffitti si dirama
e sui morenti miti delle volte.
Un fascio di bellezza opalescente
tutto ferisce di malinconia.
-A cui cresce l’amore cresce dolore-5
va ragionando la Musa di via Giulia,6
dietro le quinte aeree di fogliame
che discende dall’arco dei Farnese.
1 Il falco di palazzo Falconieri.
2 Oratorio dell’Orazione e Morte.
3 Acquasantiera della chiesa di santa Caterina a via Giulia.
4 L’ansa del Tevere.
5 Dialogo della Provvidenza di santa Caterina di Siena.
6 La Musa è santa Caterina da Siena.( Dagli Annali della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, X/2010, Città del Vaticano, 2010)
Un ricordo di Alfredo
Faceva parte a pieno titolo degli “Amici di Via Giulia”, non fosse altro perché deliziava residenti e passanti con la specialità del suo caffè, con la sua simpatia e gentilezza, invitandoli, direi quasi obbligandoli così a ritornare per un nuovo incontro. Lo incrociavo spesso nelle mie frequenti passeggiate per la via con il vassoio in mano e scherzando con lui dicevo “Alfrè te fanno fà er ragazzo de bottega. Occhio che te fanno pure le scarpe!”.
E lui sempre sorridente e ossequioso rispondeva “ Ma io preferisco così adesso, invece di stare dietro il bancone”. Ed ora che se n’è andato via, il caffè è sempre buono, ma non è più lo stesso; sa un po’ di amaro nonostante lo zucchero abbondante. Il suo piccolo bar sempre pieno di gente la mattina, il suo interessamento per i miei due figli Giulia e Flavio, hanno fatto parte delle mie abitudini quotidiane per un lungo periodo. E cosa dire poi della colazione di Pasqua che offriva a chi entrava nel bar? E del primo giorno dell’anno e di tante altre occasioni di attenzione ai clienti che sicuramente ho perso? Sebbene gli avessi detto più di una volta il mio nome Vincenzo, lui e tutti gli altri del Bar mi conoscevano come l’uomo di Internet, in quanto ideatore delle pagine su Via Giulia www.omaggioaviagiulia.com dove, fra le varie curiosità e cose da vedere o fare sul posto, c’era e c’è tuttora il suggerimento di andarsi a prendere un buon caffè da Alfredo.
Lui mi ringraziava sempre per quella pubblicità che facevo al Bar e ci teneva a sdebitarsi offrendomi qualche volta il caffè, oppure regalandomi a inizio anno le agendine personalizzate del bar che custodisco ancora con cura come icone di Via Giulia e del suo ricordo.
Devo dire che impegni di lavoro e di orari mi hanno tenuto lontano nell’ultimo anno da “Strada Giulia”, la mia strada prediletta, la strada dove la mia famiglia ha vissuto per oltre duecento anni, ragione per cui ho saputo solamente a distanza di quasi un anno della scomparsa di Alfredo. Peccato! Ho perso l’ultimo appuntamento con lui e non sarà possibile fissarne un altro. Spero non se abbia a male e mi perdoni se lo ricordo solamente con queste quattro righe e perché no anche ripassando al più presto al “Bar Giulia” ovvero “da Alfredo” a prendere un buon caffè .. anche se un poco amaro. Sono sicuro che lui è ancora lì che gira con il suo vassoio per la via.
Gennaio 2010
Vincenzo Morelli
RICEVO in data 1° Febbraio 2008 questo racconto che molto volentieri pubblico
CIOCCOLATINI A VIA GIULIA di Alfredo Tamborlini
secondo premio al Concorso letterario (Delitto d'autore) per questo giallo ambientato in via Giulia n° 4.
Il romanzo, inedito, è ambientato nel 1870.L’inondazione
Era il 26 dicembre. Via Giulia si era trasformata in un fiume scuro. L’acqua del Tevere era salita ai primi piani dei palazzi. Densa, opaca, melmosa, trascinava tronchi, radici e suppellettili. La adiacente, maestosa Piazza Farnese era un lago stagnante e le due fontane di granito grigio d’Egitto si ergevano come isole galleggianti.
Molti romani sostenevano che l’inondazione che aveva colpito la città, non era altro che il segno dell’ira divina per l’invasione dei piemontesi entrati a Porta Pia a fine settembre. Nelle chiese i banchi galleggiavano sbattendo l’uno contro l’altro ed erano stati portati al riparo gli addobbi più preziosi.
Via Giulia, la lunga strada aristocratica che si snoda parallela al Tevere, aveva cambiato molti nomi con il trascorrere dei secoli. Originariamente era la Via Recta, divenne poi Via Magistralis, Mercatoria, Florida, tutti nomi legati alle attività che si concentravano su quella strada od agli abitanti, come l’ultimo nome Florida che derivava dai Fiorentini che la abitavano. La strada è lunga un chilometro e conserva l’attuale nome da quando Papa Giulio II decise di abbellirla e affidò l’incarico al Bramante agli inizi del cinquecento. È una strada ricca di palazzi storici e di numerose chiese che le conferiscono un aspetto nobile ed austero per tutto il suo percorso.
Quel 26 dicembre, invasa dal Tevere, ricordava l’uso antico di inondarla con l’acqua della fontana di via del Fontanone per i giochi acquatici poi passati a piazza Navona. Ma l’atmosfera era lontana dall’allegria dei giochi. La gente era indaffarata a salvare le masserizie dall’impeto dell’acqua e la strada si poteva percorrere solo con le barche. Il cielo scuro di nuvole gonfie di pioggia sembrava minacciare altri guai per i romani.
Il Conte de Votis era prigioniero, con suo figlio, al secondo piano del palazzo cinquecentesco al numero 4 di Via Giulia. Il Conte, con la sua numerosa famiglia, . . . . .
. . . . . . . . . . . . (continua)
RICEVO in data 21 Marzo 2007 questa mail che molto volentieri pubblico
UNA PASSEGGIATA D’ALTRI TEMPI
Mi trovavo in una via lunga e stretta, illuminata da lampioni a gas in ferro battuto, che pendevano dalle facciate di bei palazzi in stile cinquecentesco. Aguzzando la vista, ancora annebbiata dalla repentinità del viaggio, la riconobbi. A pochi passi da me c’era una fontana di un bianco immacolato. L’acqua sgorgava limpida dalla bocca di una grossa faccia incisa nella pietra. Poco più avanti un arco con balaustra passava sopra la strada, congiungendone i due lati. L’altra estremità dell’arteria si perdeva in una specie di foschia giallastra, che la luce delle lampade contribuiva a rendere più nebulosa. Una lieve brezza faceva ondeggiare i rami degli alberi, che disegnavano ombre minacciose sul selciato. Sembrava quasi che si muovessero tutte verso il portone di una chiesa vicina, Santa Maria dell’Orazione e Morte. Un piccolo brivido mi percorse la schiena all’immagine che si era formata nella mia mente. I fantasmi dei morti insepolti che si dirigevano verso l’eterna dimora situata nei sotterranei del luogo di culto, ed edificata per loro da una confraternita.
Via Giulia, una delle più belle strade della città eterna, mi si presentava in tutta la sua originale magnificenza. Iniziai a camminare e in breve oltrepassai l’arco. Nel silenzio assoluto il rumore prodotto dai miei passi aveva quasi il sapore di una profanazione. Due figure con testa di falco e seni femminili campeggiavano ai lati di un portone. I loro tenebrosi occhi parevano seguire il mio incedere, quasi a volermi ammonire di non fermarmi. Mi scoprii così ad accelerare di colpo l’andatura. Le facciate delle case non apparivano scalcinate, né indecorosamente annerite dai fumi dello smog. La pavimentazione non era dissestata e piena di buche. L’aria frizzante della sera non era satura di micidiali vapori e gas. Non esistevano macchine parcheggiate a deturpare il paesaggio. Tutto risultava ancora integro, sano. La mano dell’uomo moderno non aveva ancora iniziato a lasciare i suoi deleteri segni su questo splendido angolo di Roma.
All’improvviso la quiete, quasi religiosa, che permeava l’ambiente fu rotta dal frenetico scalpiccio di zoccoli sul selciato. Una carrozza coperta mi passò accanto. Il cocchiere, che indossava una livrea e un cappello a cilindro, mi gettò uno sguardo allibito, poi tirò avanti, spronando ancor di più i cavalli. In quell’attimo così breve ero riuscito lo stesso a intravedere l’occupante della vettura. Il bel viso marmoreo di una donna, incorniciato da una fluente chioma di capelli castani.
Inebriato da quella fuggente visione volsi d’istinto gli occhi verso l’alto. Nel cielo terso le stelle brillavano come non mi era mai capitato di vedere. Erano fulgidi diamanti appuntati su una immensa coperta nera. Il suono improvviso del cronocell mi distolse dalla contemplazione della volta stellata. Premetti il pulsante di conversazione.
- Sì?
- Signore, mi dispiace disturbarla, ma la sua ora è scaduta. Dobbiamo farla rientrare.
- Di già? Mi ci stavo quasi abituando. E’ troppo bello qui.
- Spiacente signore, ma se vuole potrà tornarci. La nostra agenzia sarà sempre onorata di sottoporle i suoi soggiorni più esclusivi. Arrivederci.
Risposi al saluto dell’operatrice e, a malincuore, vidi il bracciale attivarsi in attesa di tornare nel caotico 2104.
Fabrizio Fracassi
RICEVO in data 21 Febbraio 2007 questa mail che molto volentieri pubblico
Da: "caiofabricius@ ........."
Data: Wed, 21 Feb 2007 11:33:55 +0000A: "SINDACO veltroni" <w.veltroni@comune.roma.it>
Oggetto: Vigili a via Giulia
Solidarietà ai vigili vigliaccamente aggrediti a via Giulia durante il loro lavoro di tentare di rendere vivibile la nostra (ex)meravigliosa Roma.
Lasciano però perplessi le versioni giornalistiche dell’episodio "… pensando che stessero facendo delle multe…" è oggi il commento più ricorrente sulle testate romane. E perchè, seppure le stessero facendo, erano forse da biasimare?
Ora, la rinascimentale via voluta ad inizio ‘500 dal grande Papa Giulio II Della Rovere è uno dei più delicati scrigni di opere d’arte della città: dall’intatto quartierino dell’ambasciata toscana a S.Giovanni de’Fiorentini allo splendido palazzo Sacchetti, all’ Oratorio del Gonfalone, alla raffaellesca chiesa di S.Eligio, per finire al Borrominiano Palazzo Falconieri e alla sublime sintesi rinascimentale di Palazzo Farnese, solo per citare i famosissimi; quelli per cui milioni di cittadini del mondo decidono di portarci ogni anno parte del loro reddito e finanziare così indirettamente migliaia di posti di lavoro. Ma decine di altri Palazzi e meraviglie adornano e rendono paesaggisticamente e urbanisticamente armonica, incantevole e orgoglio di appartenenza per noi romani la divina Strada Giulia.
E allora come è possibile concepire che questo inventario di pregiati ma delicati tesori possa essere oscurato, offeso, deturpato, calcinato, reso istericamente invivibile e non godibile, da arricchiti incivili che ignorano quotidianamente e a qualsiasi ora gli evidentissimi e sacrosanti DIVIETI DI FERMATA lungo tutta la via?
Fare delle multe a chi non rispetta le regole condivise è non solo ovvio , ma DOVEROSO ! (con buona pace delle statistiche piagnone, strizzaoocchio all'italico furbetto e attizzainciviliarricchiti sul "povero utente " vessato dagli autovelox et similia recentemente e periodicamente pubblicate da quotidiani anche prestigiosi per dimostrare come i "perfidi" Comuni facciano "cassa").
Anzi evidentemente le multe sono ancora troppo poco: dove sono finiti i carri attrezzi per impedire finalmente che i privilegi e le pessime abitudini (che ci si sente in dovere di difendere addirittura con la violenza) di pochi limitino o annullino la fruizione della stragrande maggioranza dei cittadini di Roma e del Mondo? Addirittura Piazza Farnese, meravigliosa isola pedonale da decenni, non c’è ora del giorno e della notte che non serva da osceno deposito di lamiere lucciganti.
E se due vigili che fanno il loro dovere sono sentiti come strani, provocatori e invadenti, che allora se ne mandino di più e più frequentemente a tutelare e a far capire inequivocabilmente che quello è PATRIMONIO DELL’UMANITA’ e non un buco libero qualsiasi dove piazzare la "maghinamia."Grazie,
Fabrizio.
Roma 21 feb 2007
IL PARALITICO DI VIA DELL'ARMATA
Nell'inverno del 1943, in una Roma sconsolata e fredda, andavo a prendere la Circolare Rossa a via dell'Armata, per raggiungere la scuola. La fermata era all'angolo, sul Lungotevere, davanti alla cancellata di Palazzo Falconieri e da questa si intravedeva un desolato giardino sempre sinistramente deserto.
Sarà stata la tristezza della prima adolescenza, la fame, la paura dei compiti non fatti o quei disperati rami spogli dei platani tesi verso un cielo coperto e freddo, fatto sta che quel posto mi faceva proprio star male. Tuttora, pur riconoscendone una singolare bellezza ed un alto potenziale romantico, il luogo evoca ricordi penosi e rappresenta la localizzazione dello squallore del tempo di guerra. Quasi quasi il traffico di oggi è positivo per esorcizzare certe sensazioni.
Durante il breve percorso tra via Montoro, dove abitavo, e via dell'Armata un interrogativo mi tormentava: "Ci sarà oggi o non ci sarà?" Vivevo quel momento con molta trepidazione. Come un evento sperato. Nell'angolo tra via Giulia e Via dell'Armata, accostato al giallo muro del giardino retrostante palazzo Lecca di Guevara si stagliava una figura profetica su una grande sedia a rotelle. Un omone grigio, con capigliatura grigia, un barbone grigio, sulle ginocchia una coperta scozzese grigia. Ai suoi piedi tre canoni enormi, grigi e pelosi. Come lui ispidi e dignitosi. Gli occhi dell'uomo e dei suoi cani erano grigi e vacui. Non chiedeva niente. Non sapevo se mi faceva più pena lui o i suoi cani. Pensavo che non poteva muoversi, che aveva freddo e che in quella strada deserta non passava mai nessuno per aiutarlo o dargli un po' di soldi. E poi, chissà quanto ci sarebbero dovuti restare in quel posto tremendo. Mi invadeva un senso di pietà totale, assoluta, come solo a nove anni si può provare. Ma anche di curiosità (chi era quell' uomo e perché stava proprio li?) e di misteriosa magia (e se fosse una specie di Babbo Natale ammalato?)
Ogni mattina chiedevo mezza lira a mio padre. Sospettava che spendessi la somma in liquirizie o negli ambiti confettini smaneggiati dalle "vecchiette". Mi chiese che ne facevo dei soldi. Confessai con pudore che mi servivano per il paralitico di via dell'Armata e per i suoi cani. Svelai il personaggio, gli incontri, l'elemosina e mi sentii scoperta nel fondo del cuore. Dal suo sorriso connivente capii che capiva, meglio, compativa.
Il paralitico non ringraziava mai. Era scontroso. A ripensarci doveva essere pure cattivo. Ma quel suo sguardo grigio e grato non è passato senza lasciare segno.
Tratto dall'articolo "I poveri di Dio" di Letizia Apolloni, Strenna dei Romanisti 2006, pag. 13 e 14
Da una email inviata al nostro sito
Via Giulia
(6 novembre 1976)
Stille di memoria avanzano
alternando fotogrammi e movie
in un tenue alone black and white
nell'incerto sogno mattutino
Fluttuante tra nebbie celtiche
rivarchi il portale del Virgilio
...ho in pasto tua piuma di miele
immobile al centro di Via Giulia
...E dopo questo non c'è più nulla
Se passassi di là mi vedresti ancora
oramai eterna stele che ribrama l'Eden
Massimo Pistis
Ales 10.6.1997
Da una email inviata al nostro sito
Follie di una notte a Via Giulia
Credo di essere un'amica di Via Giulia.
Credo di essere una che vive di Roma.
Volevo mandarvi questa.
Così.
Magari perchè la capirete.
Questo sito è incredibile.
Grazie.
Ju'
****
Sommersi dalle nostre carte. Scriviamo Roma. Di questi tempi.Poi la
porteremo su un palco. E racconteremo il core nostro. Chi sei se non sai
neanche da dove vieni?
Un piccolo copione, che esplode d'amore. E cerca allora, leggende, cerca una
foto, poi un'altra, poi quel museo, poi darsi i compiti: tu rimedia uno
scorcio di questo, tu stendi le riprese al Colosseo... Dio: che bella, che
sapore, una serata e una vita, a studiare, cercare, parlare, inventare, essere Roma.
E voi: i miei compagni d'avventura. I miei amici di una vita.... quello
strano, mio, cercare sempre e solo, che si fermi chi *percepisce* oltre.
Siamo girovaghi dell'anima noi... e poi, l'impulso irrefrenabile, di nuovo:
squarciare gli schemi e sì, domani ci si alza presto, domani,domani, ma...
- Rega'? Andiamo a Via Giulia.
- Adesso? Ma so' 'e undici e mezzo...
- Sei matta Giudi'? Ma...domani io lavoro...
-Mo'? Ma 'n te ne potevi usci' prima?
Solo tu, come sempre, non ci pensi. Per le notti passate a vagare nei
silenzi reciproci... e sai che se lo dico, è tampo di andare: qualcosa
accadrà. Ed è la notte giusta. Mi guardi, afferri le chiavi e sei solo la
notte che si decide:
- Rega': annamo a Via Giulia. Prenni la cassetta: sentiamo Ciumachella in
macchina....
Vaaaaai Di nuovo, squarcia gli schemi, via,... via... Roma è tutta
giallorossa... Roma è nostra... Viaaaa
*Ciumachellaaaaa* In coro rega': che svejamo rugantino, stanotte...metti
fuori la sciarpa,Giudi'. Siamo noi cinque... e la notte c'è scesa addosso,
complici, ridendo.... senti che ti si scioglie il lungoTevere in gola... e
il parcheggio, immediato: quasi ci stesse aspettando,.. lei, bellissima, Via
Giulia... la mia via Giulia. La nostra Via Giulia. E allora: tira fuori gli
spiccetti: Giu', l'hai presi gli spiccetti? Perchè c'è quella buca della
carità... là, sotto la Chiesa dell'Orazione e della Morte, che è "per li
morti presi in campagna"... e scivola... e se aspetti che non passi un
motorino... senti che strano rumore incredibile, che fa la monetina che
scende... senti...e noi due lo sappiamo bene, guarda come gli si disegna il
sorriso... a tutti e tre loro, come i ragazzini... Roma lo sai che succede?
Non c'abbiamo più età, come te... e cantiamola a squarciagola, mentre
vaghiamo, un po' sbandati... senza un solo goccio d'alcol, nel sangue, sai?
Ma ubriachi di te, solo di te Romabella... che annulli ogni tempoe ci fai
noi stessi... guarda le Carceri Nove, la casa Di Raffello:-aho, rega': quella finestra s'è mossa...
- ma dai: è disabitata...non è possibile...- ma lo sapete che di notte, là, si sentono le catene dei condannati a morte? Che passavano davanti alla Chiesa?
- E della
dama che lava la ferita al Mascherone?-Ahhhh ma allora...c'è pure quella di Piazza Navona, quella delle mani, che si vedono riflesse, nella fontana...
E cantiamola: *Ciumachella Ciumachellaaaaade Trastevere* che non c'entra co' Via Giulia, ma sta così bene a echeggiare nei vicoletti?
Signore? Non mi guardi così: lo sa che c'è? Non lo vede? Siamo tutti
innamorati, non lo vede? De Roma, sì, e allora? Non lo vede, che Roma ce
l'abbiamo nel passo, nel sangue e nel cuore? Che stanotte... è stanotte e
ancora... ancora... anche amici, siamo?Che scudetto incredibile che c'è
qui, in questo piccolo vicolo di storia...- L'hanno fatto i Madonnari, raga': ma avete visto cos'è?... lo mettiamo pure sul palco?
E poi passare davanti a Palazzo Farnese, aggrapparci alle ringhiere,,,
respirare la magia, mentre gli innaffiatoi automatici, te lo velano con
mille e mille gocce d'acqua... e quasi a far eco... la Fontana Del
Mascherone che ci chiama...sederci stanchi, là... tutti e cinque,
incantati, verso l'arco Farnese, l'edera che scende e i cornicioni a
disegnarsi sul cielo, inventando prospettive... che tolgono il fiato.
- Alan? Ci canti Ciumachella come Inglesias?
Ridere, e ride anche il mascherone... e l'edera anche, fruscia il suo
inconfondibile sorriso, come le bandiere, nei vicoli di Via Giulia.
A malincuore... torniamo alla macchina e tu, ancora:
- Domani? E se veniamo alle undici a visita' il museo di Crimonologia?
E io subito:
- Ci sto!
- Ancora? Ma che ve prenne? Vabbè...ma me devo chiede 'na giornata de ferie: l'idea...mi piace troppo
E Alan:
- Sì e poi pizza bianca e bicchiere de vino a Campo de fiori eh?
E domani: domani....torniamo Via Giulia, mia....ma stanotte c'è ancora il tempo per San Pietro... passiamoci un attimo e quando giri, là, dietro Castel Sant'Angelo e te lo trovi davanti all'improvviso te lo senti in gola, e
..... è l'infinito. Ed è Dio.
Ci torniamo a casa... stanotte... col senso dell'Eterno. Come da una vita.
Raga'... fumare un ultima sigaretta sotto casa. E sono le tre... eppure nessuno
è stanco.
Ma...non si può essere stanchi di essere pienamente, completamente,
ciecamente se stessi.
Ju'
ROMATIAMOOOOOO
Fu nei pressi della fontanone e per via Giulia che si svolse nel secolo XVII una tragica vicenda; il conflitto tra soldati còrsi del papa e il servidorame armato dell'ambasciatore di Francia; avvenimento che ebbe gravi ripercussioni nelle relazioni diplomatiche tra Parigi e Roma.
I rapporti tra francesi e milizie corse non erano mai stati molto cordiali e sotto il pontificato D'Alessandro VII gravi contrasti erano avvenuti, piccole scintille di più grave incendio, rinfocolate pure dal contegno dell'ambasciatore di Luigi XIV, Carlo duca di Créqui, il quale, altero e sprezzante, non perdeva occasione per offendere il governo presso cui era accreditato e per incitare i suoi sgherri a sollevare incidenti.
La domenica 20 agosto 1662 la maggior parte delle guardie corse passeggiava quietamente sul ponte Sisto, nei pressi di piazza Farnese e nei dintorni della Trinità dei Pellegrini dove sorgeva la loro caserma.
Verso le sette di sera tre soldati Còrsi che passavano per il ponte s'inbatterono in tre francesi i quali indossavano la livrea dell'ambasciata. Questi li affrontarono con ingiurie chiamandoli "sbirri, spie del papa". Replicarono i Còrsi d'esser soldati di onore; ribatterono i francesi minacciando di prenderli ad archibugiate.
Divisi dalla folla adunatasi, i servi del duca di Créqui tornarono dopo poco e questa volta armati assalirono i Còrsi che, sguainate le spade, si difesero accanitamente costringendo i provocatori a rifugiarsi nel palazzo Farnese. Poco dopo altri sei o sette francesi si fecero contro ad un corso che stava appoggiato alla fontana di ponte Sisto e insultandolo lo ferirono ad un braccio; poco stante ritornarono in grande numero e si diedero alla caccia all'uomo, uccidendo due pacifici cittadini, tra cui un cieco ottantenne proprio nei pressi del fontanone.
Via Giulia fu tutta in subbuglio mentre per Roma atterrita correva la voce: "i francesi l' hanno ai còrsi". Questi dettero l'allarme e si riunirono in gran numero decisi a vendetta, correndo in piazza Farnese dove la servitù si era asserragliata nel palazzo tirando archibugiate da dietro le finestre mentre i soldati la incitavano ad uscire all' aperto.
In quel momento rientrava in carrozza l'ambasciatore che non fu toccato e poco dopo anche la duchessa di Créqui si trovò in mezzo al tumulto ed ebbe un paggio ferito.
Intervennero gli ufficiali per trattener le truppe. Vari furono i morti, molti i feriti ed i contusi. L'ambasciatore pretese le più gravi misure ed il Re intervenne con tutta la sua potenza per esigere riparazioni, dichiarandosi pronto a scendere in Italia con una esercito ondate imporre le sue condizioni, impadronendosi intanto di Avignone.
Per il trattato di Pisa dello 12 febbraio 1664 la Santa Sede dovè sottostare a gravi oneri cedendo Castro al duca di Parma, obbligandosi a risarcimenti ed a scuse ed erigendo in Roma una piramide di rimpetto all'antico corpo di guardia dei Còrsi (presso la Trinità dei Pellegrini ) la cui Nazione fu dichiarata incapace per sempre di servire tanto in Roma quanto in tutto lo Stato ecclesiastico, con iscrizione esecrante l'accaduto.
Dopo quattro anni il Re Cristianissimo autorizzò la demolizione dell' in famante monumento, fece però coniare una medaglia con la scritta: " Violatae maiestatis monumentum abolitum. Pietas regi optimi". Ma Pasquino, non dimentico, ammonì: " Stia pure in cervello Créqui a tenere in freno la sua famiglia, che se per il passato sono state archibugiate, quest'altra volta sarà forca".DA: Strada Giulia di Ceccarius Roma Danesi 1940 pagg. 25, 26
DUE BORBONI IN S. SPIRITO DEI NAPOLETANI
Allorché m'ebbi l'invito listato a nero del Primicerio dello Spirito Santo dei Napoletani, mi feci un obbligo di portarmi puntualmente alle esequie degli ultimi Reali di Borbone nella veneranda chiesetta romana della vetusta Via Giulia. In fin dei conti, si trattava degli ultimi sovrani delle Due Sicilie: mio padre ha fatto in tempo ad esserne suddito. E poi è civiltà inchinarsi dinanzi ai destini sbattuti: ora Francesco II e Maria Sofia di Borbone, pace non n'ebbero né in vita né in morte.
Due eterni fuggitivi, bene esperti di esilio, quasi obbligati a scansare sempre la Storia scioperata e insolente che gli attraversava continuamente la strada. Da Napoli a Gaeta a Roma, da Roma oltr'alpe: eccoli, questi sconfitti e stanchi sovrani, restituiti nuovamente all'ombra di Palazzo Farnese, e in un cantuccio che vuole evocare gli antichi affetti dei Napoletani. Eccoli ridotti in polvere, che è forse la stessa polvere del loro viaggio. S'abbiano finalmente requie in questa Roma, che ha ospitalità per tutti, e per tutti gli esili. Roma avrà sempre da offrire una cappella a un Re di corona, cui nulla aggiungerebbero lussi di una basilica.
La chiesa, abbigliata a lutto stretto, fu presto gremita di silenziosi dignitari, convenuti quasi a una stazione per salutare finalmente il ritorno d'illustri Congiunti o Padroni partiti da tempo immemorabile. D'altronde, questi reduci in polvere avevan l'aria di volere occupare il minore spazio possibile, di volere sfuggire a ogni omaggio, di volersi eclissare al più presto. Intanto, bastava loro un unico catafalco per due, e una sola corona reale sulla coltre funebre, e quindi un'unica partita, neppur folta, di ceri (mi pare di averne contati quattordici in tutto): cosicché due carabinieri in pennacchio poterono esaurire il servizio di onore.
Nessun dubbio che le Loro Maestà si trovassero già distanti da quel simulacro e da noi, già calate e celate a basso, nell'oscura regione dei morti e sepolti.
Evidentemente, esse miravano a scomparire, solo bramose di scendere nel cuore di Roma apostolica da una scaletta di servizio aperta in quella via Giulia ad essi così familiare, in modo da riposare nel grembo dell'Urbe cristiana fino alla sveglia del dì del Giudizio. Certo, non un epitaffio, non un'orazione funebre, non un manifesto rammentò i fatti loro: quando si dice Sovrani in incognito, Sovrani discesi dal trono. Della famiglia dei Borbone, era presente, in chiesa, altro membro in esilio, muto e impassibile: l'ultimo Re di Spagna, destinato anche lui a esser sepolto, da lì a poco tempo, in una chiesetta dello stesso rione: in Santa Maria di Monserrato.Fra gli intervenuti di riguardo, (dame e gentiluomini accorsi dalle Due Sicilie e da altri punti cardinali), spirava aria di circostanza: regnava, cioè, un contegno perfetto, una cucitezza sopraffina, un cordoglio in guanti: molta accollatura; ma si era anche in un giovedì di fine gennaio. Aria, altresì, di onorevole transazione, di tacita intesa, di solidale appello al superiore giudizio di Dio: certo, i Savoia e i Borbone stavano fianco a fianco, a cornu Evangelii, e nella chiesa l'Ordine di San Gennaro e l'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro si sfioravano senza urtarsi.
A buon conto, una pacificazione,meglio, un'alleanza - era già in atto: il duca sabaudo Eugenio di Ancona aveva fatto il suo ingresso in chiesa accanto alla recente sposa Lucia di Borbone-Sicilia.
- Il tempo guardava tutto da soffitto; immenso, ermetico, nume che ha i suoi disegni e le sue scadenze; e sul suo grosso volume segna, e salda a suo modo, le partite degli uomini. Se Cavour fosse nato a Napoli a quest'ora non si starebbe qui, e ove una similare funzione avesse dovuto celebrarsi, il convegno sarebbe stato al Sudario, nella chiesa dei Piemontesi. Ma Cavour non è nato a Napoli, e vi fosse nato, l'intransigente Ferdinando II e Franceschello suo figliuolo lo avrebbero congedato con un colpetto amichevole alla spalla, paghi di veder ribollire nell'ampolla il sangue misterioso del Patrono. San Gennaro era presente all'adunata nella generosa pittura di Luca Giordano, e recava senza equivoco la palpitante testimonianza della Bella Napoli.
- La Bella Napoli, la metropoli diletta ai Borbone, fatta per loro come loro per lei, era in quel momento lontana, stesa laggiù dalle sue parti serene: in quel momento si crogiolava lungi, con le sue vaghezze canore e i suoi strascichi di luce. Maria Sofia ebbe appena il tempo di giungervi e di impazzire; venuta dal nord brumoso, dovette quasi stordirsene; certo, vi puntò i piedi fino al possibile, e s'agitò tutta la vita per ritornarvi regina: le sue ossa, in quell'urnetta, forse ne fremevano ancora. Ecco lì sul catafalco la corona che ella spasimò di recingere in Napoli, in mezzo a una corte dialettale e complimentosa.
- Invece, qui non c'erano che toni bui, gramaglie e coltri mortuarie; e certi signori dal colletto alto impazienti di uscire. "Chi vi ha convocati? cosa volete da noi? perché siamo qui? ", avevan l'aria di domandare dal loro sarcofago i Sovrani spaesati. Domande inutili, del resto; la faccenda essendo stata ormai consegnata nelle mani dei cerimonieri; dei personaggi che si aggiravano nella chiesetta col nastrino dell'Ordine Costantiniano all'occhiello dell'abito lungo: gentiluomini impeccabili e zelanti, che introducevan la gente con soffierà e dignità, come la introducessero a Corte. A questo punto, Monsignor Primicerio, firmatario degli inviti, poteva restringersi al suo servizio ecclesiastico: il convoglio funebre filava ormai per suo conto sui ferrei binari del protocollo.
Così la Messa di Requie si svolse ampia e solenne, come una stoffa ricca per natura, che si slarghi e distenda. Era la Cappella Musicale Liberiana che apprestava le sue batterie sonore, a quattro voci miste, per un'apposita marcia reale da cimitero: e fu il solo lusso della cerimonia. La Liturgia avvolse i Reali nel suo gran drappo, li cosparse di pietà e d'onore: era quanto Santa Romana Chiesa potesse fare per questi due sventurati Figliuoli, che, dopo tutto, avevano amato l'Altare più del loro Trono. Il cardinal Decano, Granito Pignatelli di Belmonte, s'era assiso lui, ora, nel suo tronetto, circondato dalla sua corte ecclesiastica; e considerava come dall'alto dei cieli questa partita di principi terreni. A un certo momento, ne discese lentamente, quasi da un immemore soglio, per avviarsi ad incensare e benedire il catafalco; e la breve processione sacerdotale fu il solo corteo della cerimonia.
Allorché l'ultima nota si spense, si fece attorno il gelido silenzio delle cripte. Ogni discorso o colloquio ora avrebbe ingenerato imbarazzo; non restava ai convenuti se non salutarsi in fretta e disperdersi ai quattro venti. Le due Case, di Savoia e di Borbone, prendevano cortesemente congedo l'una dall'altra, e si ritiravano nelle rispettive strade assegnate loro dalla Storia; gli stessi diversi Borbone, di Spagna di Napoli di Parma, divenuti schivi di folla, preferivano abbandonare quell'incongruo terreno neutro che accomunava tanti esilii, e restituirsi, ciascuno alla debita pagina, nell'aureo reame dell'Almanacco di Gotha. Quanto ai gentiluomini lealisti, accorsi come a un appello, potevano ormai rientrare nei palazzi antichi di Napoli e di Roma, riporre le insegne dei vecchi ordini cavallereschi, e sprangare il portone dietro la loro fede immacolata.
In breve, la chiesetta di Via Giulia restò vuota, e il catafalco sormontato dalla corona regale parve un monumentino solitario in una Piazzetta deserta. Io colsi l'occasione per cercare il cenotafio di quel fine studioso di materia di Stato che fu il secentista Cardinal De Luca, sepolto, quale napoletano, in Santo Spirito dei Napoletani. Ecco qua, per l'eminentissimo Dottore, arrovellatosi attorno al problema del matrimonio tra Sovrano e Nazione, un palpitante argomento da sermone morale. La Storia è pur fatta di matrimoni e di funerali.
DA: LABIRINTO ROMANO di Rodolfo De Mattei Vallecchi Editore 1954 pagg.89 - 93
Alli 4 di Giugno, Lunedi della Pentecoste fu portato processionalmente da S. Pietro a S. Gio. Battista della Nazione Fiorentina uno Stendardo con l'Imagine del medesimo Santo Andrea Corsini et per questa causa, non solamente fu apparata et adornata solennissimamente la detta Chiesa de' fiorentini di dentro, ma la facciata ancora di fora, la quale non è ancora fatta di marmi, fu fatta vagamente a posticcio con bellissime pitture, dove erano alcune colonne di rilievo, et tra proportionata disposizione di pietre, et marmi finti, si vedevano li Ritratti di tredici Santi Fiorentini, li quali stavano accomodati dentro un gran Giglio sopra la porta maggiore, sotto del quale nel fregio di un cornicione per la larghezza della facciata erano accomodati li Ritratti di tutti li Beati della loro Nazione: et sotto il cornicione si vedevano li Ritratti di cinque Papi Fiorentini, cioè Leone X., Clemente VII., Clemente VIII., Leone XI., et nel mezzo di questi Urbano VIII., et finalmente vi erano dipinte l'Arme di più di 60 Cardinali pure Fiorentini, et altri ornamenti. La strada della Processione fu tutta apparata da S. Pietro per banchi sino quasi a Corte Savella, d'onde voltò in strada Giulia sino alla detta Chiesa. Nella Processione andò la Compagnia della Pietà che è della Natione Fiorentina con i sacchi turchini, et poi numero infinito di Secolari, tutti con le torcie accese in mano, et il Collegio de' Greci, et dei Chori di Musici, et finalmente lo Stendardo con l'Imagine del Santo, accompagnato da molti Prelati et persone nobili.
DA: Diario Romano di Giacinto Gigli (1608 - 1670) a cura di Giuseppe Ricciotti
BRAMANTE FRA STORIA E LEGGENDA
"Giulio II, avido di stampar sulla terra la più vasta orma che v'imprimesse mai piede umano, aveva trovato in Bramante l'architetto che gli ci voleva. Il più grande tempio del mondo, la più grande reggia del mondo, mentre Raffaello gli popolava di storie le sale del Vaticano, e Michelangelo lanciava sibille e profeti nella volta della Sistina, e gli scolpiva un mausoleo che eternasse la gloria sua. Era nella storia umana il punto culminante, il trionfo dell'arte. Ma per quanto avesse ridotto il Vaticano quella meraviglia senza uguale al mondo, le vie per recarvisi rimanevano tortuose ed anguste. Ed ecco Bramante allargarne alcune, e aprirne e drizzarne due sulle sponde del Tevere; la Lungara sulla destra, su cui il magnifico Agostino Ghigi veniva a porre il gioiello del suo giardino, e sulla sinistra quella che ritiene ancora il nome di Giulio II, e che doveva condurre a San Pietro pel ponte Trionfale ricostruito. I tribunali della Curia erano sparsi in sedi disagiate ed anguste; ed ecco Bramante metter mano alla erezione di un palazzo che avrebbe avvivato e popolato tutta la contrada. Naturalmente, tra quel papa e quell'architetto esso doveva riuscire il più grande e magnifico palazzo del mondo." Di tanta progettata magnificenza ben poco resta; chi percorra Via Giulia riscontra tra le Carceri Nuove e il palazzo Sacchetti grandi bozze di travertino con tratti di sedili che il popolo chiama "i sofà di Via Giulia". Giuseppe Petrai nel suo articolo quasi archeologico del 1931 così spiega la sospensione dei lavori del palazzo giuliano:
"Correva l'anno 1510.
"Bramante Lazzeri, che quattro anni prima aveva determinato Giulio II a demolire la chiesa di San Pietro per fabbricarne una più grandiosa, fu dal pontefice chiamato da Urbino a Roma.
" Il pontefice gli disse:
" - Vogliamo che, a giusta ragione, il mondo cattolico chiami noi terzo fondatore dell'Urbe. Alla via Retta che, ora, prende nome dal nostro, via Giulia, occorre aggiungere novello ornamento con un palagio di cui Roma abbisogna per l'amministrazione della Giustizia. E vogliamo che palagio tale sia sontuoso e vasto, di gigantesca fattura, in travertino, a bugne grandiose. Tu Bramante, ne sarai l'architetto, chè ben si addice a te il quale hai compiuto opera ingegnosa e magnifica riunendo Belvedere al Vaticano.
" A Bramante che subito si pose all'opera, ciò suscitò più di un rivale. Fra gli altri - si crede - anche il grande e beffardo Buonarroti.
" Una notte, traversando la piazza di San Pietro, Bramante vide un'ombra pararglisi innanzi.
" Era l'Apostolo.
" Irritato per la demolizione del suo vecchio Tempio profetò a Bramante che - Roma non lo avrebbe restituito ad Urbino-.
" Dopo di che, senza parlare al papa, il quale certamente ne avrebbe riso, dell'apparizione di San Pietro, Bramante gli disse:
" - sono stanco, Santità... Mi sento vicino a morte e voglio ritornare ad Urbino.
" - Per la Croce di Dio! - gridò il papa - sei tu impazzito? E quale tomba più augusta di Roma Santa, ove saremo sepolti anche noi? Resta dunque. Ti prometto, stai tranquillo, che sarai sepolto in San Pietro.
" Non glielo avesse mai detto! Bramante, gettandosi ai piedi di Giulio II, gli narrò come fosse già stato prevenuto della propria fine da San Pietro in persona.
" Non valsero rimostranze, preghiere, minacce a trattenerlo. Quel giorno stesso deliberò di partire. Sul punto però di montare a cavallo e salutar Roma, colto da febbre, dovette essere riportato a casa sua e... non si alzò più.
" Impressionato, suo malgrado, di ciò anche il papa, non volle altrimenti che il Palazzo di Giustizia fosse continuato. Gli informi mozziconi delle mura rimasero lungamente abbandonate, fino a che, sotto altro papa, parte vennero demoliti, parte rimasero a base di altri edifici.DA: Strada Giulia di Ceccarius Roma Danesi 1940 pagg.10, 11, 12
Marietta Crisari aveva una modesta osteria sulla Piazza Capo di Ferro chiamata anche Piazza Spada, e precisamente sul cantone di Via dei Venti. Oltre che per il vino sempre ottimo, era specialista per il buon brodo e le triglie alla livornese. Ricordo anzi che per questo piatto i buongustai dell'Urbe muovevano da qualunque punto più eccentrico, nei giorni di mercato e il venerdì! È pure vero che la pingue Marietta (non so perché gran parte delle ostesse romane siano tutte grasse e basse) si recava di buon'ora al mercato nella prossima Piazza di Campo de' Fiori, dove faceva provvista delle più belle triglie di scoglio che vi si trovavano. Nella mattinata, poi, tutti la potevano vedere col pesce nella scolatora curva dinanzi alla fontanella dell'acqua Marcia, che si trova sulla piazza, a mondare amorosamente il pesce, sciacquandolo e risciacquandolo nell'acqua corrente. Marietta era popolarissima nel quartiere della Regola e di Parione. La Piazza Capo di ferro dove si trovava l'osteria, per quanto adorna di uno dei maggiori palazzi dell'Urbe, mi è sempre apparsa, non so perché, come una Piazzetta di provincia. Tutte queste casette basse e popolari intorno al palazzo degli Spada, la relativa quiete per il limitato transito delle vetture, la prossima minuscola Piazzetta di Santa Maria della Quercia con le popolari anguste strade dei Balestrari e delle Grotte e il deserto vicolo del Polverone, formano uno scenario quasi trasteverino per non dire paesano. E l'osteria di Marietta era un po' come il cuore pulsante di un piccolo borgo. Il locale, che consisteva in una cucinetta e due disadorne stanzette basse, senza nessuna pretesa, era frequentato in gran parte a tutte le ore del giorno, da vetturini e da operai non solo, ma dai maggiori professionisti dei dintorni, come il negoziante Giovannola, l'orefice Oreste Ricci e suo fratello Pippo, artista d'operette, l'impiegato Enrico Tora. E il fatto si spiegava così: il vino era sempre di prima qualità. Marietta Crisari aveva i suoi provveditori a Marino e a Frascati e tutto quello che i due famosi castelli producono di migliore era per lei. Il maestro di musica Pietro Gattari prima, e suo figlio Giulio dopo, tutti e due organisti di S. Carlo ai Catinari, erano frequentatori assidui di questa osteria. Ma per la troppa affluenza di pubblico e le esalazioni della cucina, la sera, ci si respirava male. Anche a Marietta come alla maggior parte dei proprietari di osterie, a un certo punto il localetto sembrò insufficente e allora pensò, giacchè era impossibile un ampliamento dove si trovava, di affittare un vasto negozio nel palazzo di fronte e precisamente sul cantone del vicolo del Polverone e di Via dei Venti. Ma il nuovo esercizio, dove non voleva recarsi nessuno, durò pochi mesi, forse neppure un anno. La clientela preferì affumicarsi nel primitivo irrespirabile locale, ma non volle frequentare il nuovo che rimase quasi sempre deserto.
Fra i clienti rammento Pietro Escalar, Alfredo Politi, Pio De Sanctis, l'orefice Alessandro Fabrini, e in special modo ricordo Alberto Sirani, bellissimo giovane, il quale possedeva una voce meravigliosa di baritono che modulava con un gran sentimento. Scolaro del sor Pietro Gattari, egli veniva spesso a bere un bicchiere col maestro. Lo accompagnavano i Filibeck, I'Herzel, pure amici e frequentatori del locale.
Come Guglielmo Oberdan capitasse una sera nel. l'osteria di Marietta, non ho potuto mai sapere. Chi ce lo condusse? Certo uno dei clienti su nominati, perché io ricordo bene d'aver sorpreso Esterina Gattari, ora vedova Pecci, figlia del sor Pietro e nostra pigionale, che raccontava a mia madre, a voce bassa come chi confida un segreto;
- È un bel giovane, sai! È un triestino biondo e dai lineamenti regolarissimi! Figurati che ha gli occhi azzurri di quell'azzuro cupo come i fiorellini di campo. Dopo essere stati a bere da Marietta, ieri sera son saliti da noi. (I Gattari abitavano nell'appartamento superiore al nostro in Via Giulia 204). C'era l'Herzel, Sirani, De Sanctis. Il triestino è venuto per sentire Alberto Sirani che ha cantato « O begli occhi di fata » e « La mia bandiera »; dopo si son messi a discutere di politica.
Ma il sor Pietro s'impiccia di politica, adesso?
Non è che s'impicci... se ne interessa da buon italiano.
Ah già, perchè Trieste dovrebbe essere italiana?
Per forza. Povero giovane, come era sfiduciato ! Diceva: a Noi lassù, si vive nella certezza che l'Italia faccia titanici sforzi per la nostra redenzione e ad ogni alba che spunta si spera di trovare allineate dinanzi al porto le unità italiane. Sono venuto per rendermi esatto conto di come stanno le »cose. Che delusione! Anche il popolo si disinteressa della causa nostra. Oggi ho parlato con un alto personaggio: ho le orecchie piene di: « Non si può » « Le nostre responsabilità» « L'indirizzo della politica odierna » « Noi seguiamo con simpatia e interessi vivissimi le vostre sacrosante aspirazioni, ma che possiamo farci? Il momento non è favorevole, bisogna aspettare! Occorrerebbe una ragione, un pretesto che ci manca ». Egli ripeteva con infinita tristezza queste parole: « Se leggessi minore indiffe renza e minore antipatia sul volto dei fratelli italiani penserei che solo il sacrificio di uno di noi varrebbe a scuotere l'inerzia del governo, dando all'Italia finalmente il pretesto di muoversi; ma se anche questo riuscisse inutile ! ? ».
C'era, ti ripeto, un così grande accoramento nelle parole di quel giovane! Ne sono rimasta più che impressionata, commossa. Chissà che pagherei per vederlo tranquillo! Papà dice che il triestino ripartirà presto perché la pera non è ancora matura!
Con gli uomini di governo d'allora, se non sopravveniva la guerra non potevano esservi certo probabilità che la pera si maturasse col tempo!
Non so se quella fosse l'unica visita che il martire triestino facesse all'osteria di Marietta, ma è certo che una volta ci si recò e non passò inosservato.
Quando poi una sera i giornali annunciarono alI' Italia la tragica fine di Oberdan un bisbiglio circolò fulmineo in tutto il locale di Marietta:
L'hanno impiccato! L'hanno impiccato!
Nel solito tavolino di cantone della seconda stanzetta la comitiva scattò come un sol uomo. Tutti i frequentatori furono in piedi col bicchiere in mano. Un gesto dell'ostessa, implorante il silenzio, non impedì il grido che eruppe unanime: « Viva l'Italia! ».Augusto Jandolo
DA: Osterie Romane -Autori vari- Milano Casa Editrice Ceschina 1949
Smettiamo di chiedere agli archivi (che, del resto, non ce lo dicono, e fanno benissimo) come fu che l'oscuro e solitario provincialotto, di nome Giuseppe Vasi, se ne venne di Sicilia in Roma. Ogni "provinciale " si guardi alle spalle, se ci riesce, e trasporti idealmente la sua piccola storia privata indietro di due secoli, ricostruisca come Roma se l'è preso nella sua ragnatela. Due secoli fa, la tela si stendeva fra Ripa Grande e Capolecase: eppure quel tanto (allora come oggi) che può dare all'ospite la sensazione di essere, secondo il caso personale, un ulisse greco o un conquistatore spagnuolo. Metà allo scoperto e metà sottofodera, ma dall'una e dall'altra parte gonfia di umori, Roma era sdraiata come il suo statuario nume tiberino che si cresce i putti sulle membra, immersa nella sua insigne accidia. Il Vasi vi cadde in grembo come un pesce novello.
Accadde poi a lui come accadrebbe a quei putti se si muovessero di percorrere quel gran corpo disteso, con ambizione e compunzione, con curiosità e abilità. Era un incisore, ma anche un siciliano: assommiamo dunque immaginazione e destrezza, punto d'onore e socievolezza, galateo e spirito d'avventura, senza trascurare il timor di Dio e del prossimo. Tipi simili camminano finché arrivano. Il Vasi camminò per le vaste membra romane, arrivò all'omero del suo nume, e dal Gianicolo lo spettacolo gli toccò il cuore e la mano. " Di là appunto io presi il partito di disegnare il gran prospetto di Roma, che ho dato alla pubblica luce ". La cosa era veramente grossa, era di quelle che si leggono nei libri. Allora rifletté se, per affrontare la faccenda, non gli convenisse partire appunto dai libri, da quei naturali maestri del luogo che è convenuto chiamare i classici latini: difatti, vi si appoggiò e si sentì in certo senso più spalleggiato. Il provinciale trovava da sé le sue guide ideali; quanto a quelle materiali, poteva bastare il primo bruscolinaro o mendicante che incontrasse. Si apponeva benissimo, e trovava così l'equilibrio delle sue figurazioni. A un certo punto ne seppe abbastanza, e chiese solo alla regina vedova di Spagna uno studio in palazzo Farnese per lavorare in santa pace. Adesso, dietro la porta del suo piccolo laboratorio, era il nume statuario a spiare quel che diavolo combinasse, costui, col suo armamentario di bulini, raschietti, cannelli, oli, acidi e vernici.
Allestiva, una dopo l'altra, quelle vedute di Roma che ancor oggi girano per il mondo con la sua breve, morigerata firma in un cantone. I palazzi, le basiliche, le porte, le piazze, le ville, i monasteri, le fontane di Roma: come a dire il suo diario e il suo breviario. Relazione di un esploratore che ha adempiuto il suo dovere con lo scrupolo del devoto che si passa puntualmente tra le dita tutti i grani del rosario. Non so, in verità, se Roma abbia avuto un discepolo più meticoloso e riguardoso: direi anche umile, considerando la sua rinunzia a ogni presuntuoso arbitrio d'interpretazione, a ogni stimolo di magniloquenza; da uomo che si attiene all'acqua acetosa schivando lo spumante. E penso appunto a colui che del Vasi fu, prima alunno, poi collega, infine fatalmente antagonista: a quel Piranesi che prese a Roma le sue (del resto, magnifiche) sbornie e non si dispensò, molto spesso, dal seguir le proprie allucinazioni più che la verità immediata della Città. Il che non è successo al Vasi, o perché troppo rispettoso di Roma, o perché persuaso che una maestà rimane tale anche se beve l'orzata per via o se un cane le si accovaccia tra le gambe.
Appunto, vedi, nelle acqueforti del Vasi, questo di caratteristico, e se vuoi di patetico, ma comunque d'istruttivo: la visione dell'insigne architettura non scompagnata dall'intervento consuetudinario del dozzinale personaggio di giornata: lo zoppo, il ciarlatano, il friggitore, la bestia da traino: nel che si palesa, oltre la fedeltà del cronista, la lezione del moralista, che sa come il Pantheon serva, insieme, al riposo dei re e al rifugio dei gatti, e il busto del Pincio al ricordo del grand'uomo e all'iscrizione dell'innamorato, e la gradinata della Trinità dei Monti alla scenografia della piazza e al mercato dei fiori. Così, allorché descrive "il nobilissimo Casino " elevato da Giulio III su disegno di Baldassare Peruzzi e terminato da S. Carlo Borromeo sotto il pontificato di Pio IV, si affretta ad aggiungere che " incontro a questo evvi la famosa osteria che porta il medesimo nome della vigna, ed entrambi ora appartengono alla Eccellentissima Casa Colonna ". " Entrambi ", il Casino e l'Osteria, sono aspetti di una realtà storica che Casa Colonna accomuna nel suo possesso e lo scrupoloso relatore affratella nel suo registro.Una " magnificenza ", quella di Roma, che, spesa in monete d'oro o spiccioli di rame, è sempre cavata da quella tal borsa ed elargita da quella tal mano: chi non si rende conto di questo, non è neppure all'abbicì dell'Urbe.
Tanto introdotto s'è ormai nelle faccende di Roma, che vedi, a un certo punto, questo provinciale di Corleone, questo figlio e nipote di vasai, farsi, oltre che descrittore dell'Urbe per via di figure, descrittore per via di scritture, farsi autore di un Itinerario per i forestieri, che è quanto dir cicerone. Allo stesso modo abbiamo veduto in New-York un siciliano di trapianto farsi cicerone in quella metropoli; e qui ravvisi una sorta di trionfo dell'immigrato assurto alla maggiore dignità dell'indigeno, che è quella dell'intendente e dell'anfitrione.Ma come non scorgere una punta sottintesa di orgoglio rivendicativo in quel suo affermare, al principio dell'Itinerario, che furono i Siciliani ad abitare Roma per primi? " In questa parte d'Italia, ove Roma risiede, si legge che nei primi tempi una colonia di Siciliani si trasferisse, non sapendosi di certo se per l'addietro fosse abitata o priva d'abitatori. Vennero, dopo di questi, certi popoli chiamati Aborigeni, partiti dall'Arcadia... ". Son roba posteriore i Pelasgi, Saturno, Giano, Evandro coi suoi Troiani, Enea, tutti gli altri... Il propatruomagno del Romano è il Siciliano. Ecco - avrà riflettuto tra séperché qui mi sento così di casa!
E come non legittimare la civetteria del cicerone, allorché, condotto il forestiere al palazzo Farnese, coglie garbatamente l'occasione per pregarlo di favorire anche nel suo studio a pianterreno, presso l'urna di Metella, e ammirar lì certi capolavori " che tengo per mio piacere " (Veronese, Giulio Romano, Caracci, Maratta, Caravaggio), nonché, perché no?, le sue proprie incisioni, le sue Magnificenze, cioè i suoi validissimi titoli di romano onorario?
Chi, in verità, più quirite di lui, che a furia di ripassar Roma sul rame, se l'è sentita figliare come dalle dita consunte, e quasi ruzzare nella sua stanzuccia coi suoi ragazzi: essi, per diritto di anagrafe, romani senza discussione? Ma quirite al modo dei veri quiriti, che non sono affatto storditi dall'Urbe, ma anzi derivan da lei una salute di ferro, quasi il vigore del travertino. A settantadue anni, allorché la morte lo coglie, è ancora un operaio che sgobba, benché vivaddio, Conte Palatino e Cavaliere dell'Aula Lateranense. Ora potrà riposarsi, in una chiesetta della vecchia Roma, in Santa Caterina della Ruota, da dove nessuno lo staccherà più.Lì si è coricato lui, come il vecchio nume tiberino, e adesso tocca ai romani aggirarsi, con curiosità e rispetto, sulle sue membra di rame.
DA: LABIRINTO ROMANO di Rodolfo De Mattei Vallecchi Editore 1954 pagg.39 - 43
La campagna ha le sue uccisioni silenziose; non è poi quella fata che si dice. Maga, piuttosto; e difatti è la dispensiera delle erbe. Anche nella campagna di Roma bisognerà star in guardia, e un tempo il chi va là potevan darlo ugualmente la zanzara e il brigante. D'improvviso, ecco un passeggero ripiegare su se stesso, affondare il viso nel prato, e l'anima emigrare cheta, salvandosi a stento, vapore fra i vapori, oltre le spire dell'aria febbricosa. Il colpo poteva esser partito dal cielo o dall'uomo, giacché l'insidia ci è sempre ai fianchi.
All'arcadia laziale non manca la nota del rudero; e dovrebbe essere un avvertimento. Son pietre mozze, abbastanza familiari ai pastori, e per noi perfino eccitanti. Nondimeno, quelle rovine affioranti sull'Agro come pezzi di un mondo fatto a brani, hanno un loro aspetto severamente istruttivo. Si può cadere presso un capitello sdentato, presso una colonna tronca, e diventar fratelli dei ruderi, cioè membri d'una vasta famiglia segnata dal destino. Perciò la morte nella campagna romana ha un che di sacro, di storico, di fatale. Gli uomini abbattuti si adeguano tosto alle pietre stecchite. E forse son quelle pietre a voler compagnia. La solitudine è sempre un peso difficile a reggersi. E la solitudine nella campagna romana ha un suo sapore amaro, quasi un rancore di felicità perdute, con quei veleni diffusi e quei silenzi ostinati e quei numi indigeti rasi al suolo. E come se l'antichità avesse con la posterità un rabbioso conto ancora aperto, delle rivincite da prendersi. Se la città è stata ridotta alla ragione, la campagna si mantiene ostile, si difende anche coi gas mefitici. I passanti si avventurino a loro rischio. Perciò i morti di campagna dovettero apparire davvero miserandi, come chiunque è colpito a tradimento.
Se ne rattristarono, appunto, quei cristiani devoti, che nell'anno del Signore 1538, istituirono in Roma una Confraternita, sotto il titolo della Morte, allo scopo di soccorrere i poveracci rinvenuti presso gli stagni i fossi i viottoli della campagna romana. Il Sodalizio ha celebrato, qualche tempo fa, il quarto centenario di vita misericordiosa; la chiesetta di via Giulia ha potuto interrompere con un arazzo esterno la sua consegna secolare di « modestia e silenzio ». Con modestia e in silenzio, entriamo dunque, io innanzi e voialtri appresso nella cappella modesta e silenziosa.
—Morti di campagna, fatemi posto. Supponete che dietro lo stendardino dell'Arciconfraternita sia entrato uno dei vostri. Potete ben ricevermi, voi convenuti qui da Maccarese, da Fiumicino, dalla Magliana, da Ponte della Scafa, da Settecamini. Ecco un annegato, un folgorato, un accoppato di più. Vengo a far parte della Repubblica dei Meschini. La campagna m'ha preso al laccio (questa campagna scorata e, dopo tutto, non allucinante), poi m'ha lasciato secco. Son rimasto per un pezzo rovesciato presso un ciglio di strada: e cionondimeno le formiche non ismettevano il loro viavai, né certi canti remoti il loro suono roco. Da parte mia, ero già una moneta fuori corso. La campagna imperturbata non aveva, manifestamente, alcun bisogno di me: io, la formica, quel sasso laggiù, eravamo pari. Le nubi giocavano, credo, col vento: comunque, ero troppo distante da loro.
A un certo punto sono arrivati i Fratelli in sacco nero: tutta gente rispettabile,di buon ceto, non persone di livrea o di arti abbiette. I morti solitari debbono essere raccolti da mani pulite; Sua Maestà la Disgrazia ha da esser trattata coi guanti. Forse sono stato raccolto da persone di gran lignaggio: so che tra i Confratelli v'ha principi del sangue e della Chiesa.
A ogni modo, eccomi qua, un Morto di Campagna in più. Mi compete l'assoluzione secondo il rituale romano. Ora, il cerimoniale del luogo abbia il suo corso. Magari preferirei entrar da ignoto, senza carta d'identità, pari a coloro di cui il teschio reca qui il superbo titolo di Sconosciuto. (Giacché qui usa scrivere sui teschi il nome del morto-quando è possibile-e il giorno e il posto del ritrovamento). Per il resto, decida il Provveditore di Chiesa. Vedo qui trattate le ossa umane qual pregiata materia di lavorazione, simile a vetro o corallo, e composti con magistrale fattura dei bei lampadari. (A loro gusto i morti ornaverunt lampades suas). Uno Sconosciuto dia modo alla Cappella di posseder, mettiamo, dei nuovi candelieri: regga così una fiamma. (Ove non possa addirittura fornire uno scrittoio: dicono che Cliante scrivesse su un fascio d'ossa gl'insegnamenti del suo maestro Zenone). Come altrimenti disobbligarsi con l'Arcisodalizio? Mi venisse consentito, metterei la mia fantasia d'Anonimo, divenuta austera e morale, a servizio del Provveditore dei Morti, che entro il mese di luglio deve allestire la Rappresentazione da recitarsi in Cimitero. Ecco là dei versetti istruttivi e terribili (a Ancor noi fummo come voi-Voi sarete come ora siamo noi »), e altri di autore sconosciuto, seppur di scuola metastasiana. Che tocchi ai morti di campagna far la lezione ai vivi di città? Pare: i vivi che visitano la cripta se ne risalgono su rabbuiati e scaduti.
Ah no, qui non s'è in una cripta egizia, affrescata da serene immagini di stagione: qui la Morte si vendica della vita, non ha più niente da spartire con lei, parla un'altra lingua. Sarà che nella sede dei Morti di Campagna non sono tollerati trucchi e imbrogli. O di qua o di là. La Morte è la Morte, come il nero non è lo scarlatto. E non si può darla a intendere proprio qui, nell'ospizio degli Accidenti. Sbalzati di sella all'improvviso, per un colpo mancino della Parca, gl'inquilini di qui non parlano più di cavalcare. Fulminati, arrotati, o comunque abbattuti, qui sono riuniti a congresso i relitti di fuoriporta. La Madre Chiesa che pensa a tutti ha messo su una Banca, e ha provveduto anche ai Morti di Campagna, riconducendoli a Roma e allogandoli in una via di sicura nobiltà. (I Morti di Campagna, ignoti o identificati, riposano non lungi dalle tombe regali dello Spirito Santo). Anzi, ha stabilito per il loro ricevimento un meticoloso cerimoniale. In ogni modo ha assicurato loro un suffragio. E ha eliminato ogni epigrafe funeraria.
Gente di casa, fatemi posto. Due padrini illustri mi introducono: la Campagna e l'Accídente. Due padrini augusti e severi, che poi son gli stessi pilastri di questo Oratorio, e terranno in piedi la Banca.—
DA: LABIRINTO ROMANO di Rodolfo De Mattei Vallecchi Editore 1954 pagg. 221 - 224
Francesco Borromini - la tragedia di una vita
. . . e a Roma, nella sua casa, ora scomparsa, al Vicolo Orbitelli (ultima traversa di Via Giulia, a sinistra, prima di arrivare a S. Giovanni dei Fiorentini), il 2 agosto 1667 egli chiudeva tragicamente una vita tutta tesa al raggiungimento del sogno impossibile di far coincidere le forme materiali con le linee di una fantastica ebbrezza architettonica, alimentata dal genio e dalla ipocondria.
Il Borromini, dettando le sue ultime volontà al notaio Olimpio Ricci, del Consolato dei Fiorentini, aveva espresso il desiderio che " il suo corpo, fatto cadavere, venisse privatamente portato nella chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini, senza che ivi fosse esposto, ma seppellito nella sepoltura della signora Giovanna Maderno, dove è seppellito il signor Carlo Maderno, architetto famoso in Roma suo parente per via di donna "; la cui lastra sepolcrale è tuttora visibile, con una lunga iscrizione, nel braccio destro del transetto. Purtroppo il nome del Borromini non venne inciso in quella pietra, si che non ci è dato conoscere l'esatta giacitura dei suoi resti mortali. Soltanto nel 1955 si ovviò in parte alla grave dimenticanza facendo apporre un marmo commemorativo sul terzo pilastro a sinistra della grande navata. Reca inciso un epitaffio, latino, che dice tutta la malinconia di una morte, tutta la tragedia di una vita.DA: Francesco Borromini (1599 - 1667) Celebrazioni in occasione del III° centenario della morte. Opuscolo edito a cura della Accademia Nazionale di San Luca - Roma 1967
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