IL MISTERO DEI CITOFONI

 

   Qualcuno, di notte, suonava i citofoni del palazzo di plastica e vetro scuro. Trilli e cicalii rompevano il silenzio, qualcuno diceva parolacce, le finestre s'illuminavano, le donne più giovani sbadigliando sistemavano i capelli con le mani.

Nessuno aveva visto i disturbatori, neanche a fuggire. E dire che dovevano essere in tanti perché i 222 campanelli venivano suonati tutti e tutti insieme.

   Una sera, dopo cena e telegiornale, i condomini e gli inquilini si diedero appuntamento al centro del grande parcheggio; e, tutti insieme, un po' stonando e un po' perdendo il ritmo, intonarono una protesta che era stata scritta per l'occasione da un tale lungo e magro, ch'era poeta ma anche geometra.

 

                  Tutte le notti la stessa cosa,         (osa) (sa)

                  mentre la gente qui riposa,            (osa) (sa)

                  uno squadrone di bricconcelli         (elli) (lli)

                  suona tutti i campanelli.                 (elli) (li)

                  Questo posto  ormai un inferno         (erno) (o)

                  sia d'estate che d'inverno:             (erno) (no)

                  a lavorare di giorno andiamo         (iamo) (o)

                  e la notte non dormiamo.            (iam) (mo)

 

   Successivamente si scambiarono camomille, valeriana a gocce e compresse, incoraggiamenti, scongiuri, e tornarono nelle loro case. Spensero le luci. Cercarono il sonno.

   Poche ore dopo, in piena notte, uno stormo di uccelli ombrò per un attimo la luna. Poi i pennuti scesero sui citofoni battendo velocemente le ali. Spinsero col becco i pulsanti, e via di nuovo in volo ad ombrare ancora per un attimo la luna.

   Tutte le finestre si illuminarono come la ruota di una giostra e così passò un'altra notte, piano e lentamente.

   Al mattino seguente tutti andarono al lavoro ed i ragazzi sbadigliando salirono le scale della scuola. Nessuno di loro volle la merenda perché non avevano fame.

   Gli uccelli, invece, restarono sugli alberi di plastica, guardavano un punto lontano. Stavano immobili verso il primo raggio di sole che si rompeva sulla plastica e sul vetro dei palazzi.

   Ad un tratto un uccellino smilzo e con lo sguardo mobilissimo che si chiamava C-19, poiché era addetto a suonare il campanello di quel palazzo, si mosse. Aguzzò lo sguardo. Disse agli altri di non seguirlo, spiccò il volo.

   C-19 volava basso e insisteva con lo sguardo nelle finestre sopra il supermercato ch'era sempre chiuso, in quanto non essendovi gente che comprava il padrone intuì ch'era inutile tenerlo aperto. Doveva però starci ugualmente quel grande negozio perché non si poteva assolutamente dire che non c'era.

   C-19 frenò il suo volo, e si fermò su un davanzale di alluminio. Col capo ed il becco bussò al vetro. Non ebbe risposta. Bussò ancora, e più forte.

   "Un uccellino!," esclamò una vecchietta, lasciando la poltrona. "Un attimo e ti apro... Vieni, vieni...".

   C-19 entrò con due mosse d' ali. S'incuriosì dello specchio. Si rimirò per bene. E con gli occhietti fissi e svelti ispezionò ogni punto della stanza.

   "Mi siedo, sono stanca... In piedi non cela faccio."

   "Come mai sei stanca?," chiese C-19 volando su un'altra poltrona.

   "Non si dorme più... Di notte suonano i citofoni...".

   - Chi sarà mai?,- pensò C-19, contento di se, e: "Perché lo fanno".

   "A saperlo!," rispose la vecchia sedendosi meglio.

   "E se volessero mandarvi via...," disse l'uccellino come se volesse anticipare una risposta.

   "Mandarci via? e perché mai?.. Guarda bellino mio...".

   "Mi chiamo C-19," rispose un po' infastidito.

   "Io Evira," e con le mani remanti si indicò il volto pallido e morbido. "Guarda che faccia, ho sonno...".

   "E noi allora," interruppe l'altro, "noi? Che stavamo qui prima che spianassero la collina, che deviassero il fiume. Prima dei palazzi e delle foglie di plastica...".

   "Ma che dici?".

   "Che sugli alberi di simil plastica si sta male... Senza il frusciare, se ci avviciniamo troppo ci tagliamo... Senza niente da mangiare. Non abbiamo forze: non possiamo neanche migrare; siamo in trappola."

   "Non potete beccare i muri e neanche i fiori sui balconi perché non ci sono... Hai ragione...".

   "Meno male!," esclamò polemico C-19.

   La vecchia si alzò lentamente e sparì dietro la porta.

   "Ecco," disse tendendo la mano tremante, "ecco i biscotti, mangia... ".

   C-19 mise il becco nel cartone e pensò: - non sono bacche. Questa deve essere la vaniglia col cacao... ".

   "Anche noi 19...," riprese la vecchia sedendosi, "stavamo assai meglio... Gli uccelli venivano a farsi inseguire dai ragazzini... Adesso ecco qua: soli: e senza dormire...".

   "Sono C-19 e non 19," sospirò, e: "Ma perché allora non siete rimasti dove eravate?," chiese ingoiando una briciola un po' grossa di biscotto.

   "Ci hanno mandato via!".

   "Perché. Stavate bene. L'hai detto tu?".

   "Le nostre case dovevano diventare uffici...".

   "Come sarebbe uffici?".

   "Uffici, credo," rispose la vecchia reclinando la testa. " Credo, non lo so. E non lo voglio sapere...Oramai...".

   "Ma!" esclamò l'uccellino, e dopo un'altra briciola di biscotto, aprì il becco in segno di saluto e se n'andò.

   La vecchia lo guardò librarsi nell'aria. Scosse il capo. Socchiuse la finestra. Si accomodò sulla poltrona.

   C-19 tornò veloce al proprio ramo e si prese i rimproveri di tutto lo stormo... Dov'era stato? Le foglie erano infuocate. E non si torna mai dopo mezzogiorno, e dopo il tramonto: quelli erano i patti.

   Egli si spiegò. Raccontò della vecchia Elvira con le mani tremanti, il viso morbido. La scatola coi biscotti.

   Lo stormo planò sull'asfalto, e gli uccelli cinguettarono uno alla volta. Ascoltarono il canto di uno di loro. Alzarono tutti insieme l' aluccia destra. Presero il volo verso il sole.

   Quando arrivarono dalla vecchia Elvira che stava inseguendo il sonno, si sistemarono sul davanzale, appaiati e ben stretti, affinché ognuno potesse vedere oltre il vetro.

   Poco dopo, uno di loro che aveva il nomignolo di Gioac Rossini, perché era bravo, un pò grasso, e parlava poco, batté tre volte l' aluccia e tutti insieme cominciarono a cantare: piano, forte: più piano, un po' più forte. Elvira non fece in tempo a voltarsi che già russava.

   Per primo entrò Gioac Rossini perché era di strada, poi C-19 che avrebbe fatto strada, e a seguire: A-1, A-2, tutti gli altri, fino a che non fu nella stanza anche il simpatico H-21 che parlava sempre di ragazze.

Mangiarono qualche granello di biscotto dalla scatola che era rimasta sul marmo che reggeva lo specchio. Quando fu spazzolata via l'ultima briciola, per la quale C-17 e B-12 si erano beccati, ognuno riprese il proprio posto, e volando macchiarono la nuvola molto bianca che aveva coperto il sole.

   Da quel giorno nessuno suonò più i citofoni del grande palazzo di plastica e vetro scuro, e le finestre di notte finalmente restavano spente.

   Una sera, dopo cena e telegiornale, i condòmini e gli inquilini si ritrovarono nel grande parcheggio per festeggiare la notte e per ascoltare il versi del tale lungo e magro, ch'era geometra ed anche poeta. Egli aveva scritto:

 

                  Lo diceva anche mio nonno,

                  le mie poesie fan bene al sonno.

                  Le mie alte ispirazioni

                  fan fuggire i mascalzoni.

                  E' la mia sublima arte

                  che non fa suonar le porte.

 

   Tutta la gente, riposata e contenta, senza starci troppo a pensare, un po' stonando e un po' perdendo il tempo, cantilenava, mentre lo stormo di uccelli, finalmente in forza, migrava verso altri posti. Andando gli uccelli si chiedevano come poteva essere così buona la vaniglia nella pasta di cioccolato.