Roberto Nervegna

 

APPUNTAMENTO

 

    Ci sono giorni che a nostra insaputa portano segretamente i segni del cambiamento, o della fine. Questo pensiero mi appartiene per via di un caso lontano e concluso.
Lego i miei giorni a dimestichezze familiari, prevedibili e senza voli. Un tutto per nulla esaltante che nemmeno ha la forza di farmi sentire un tapino. Quando penso ai miei giorni, quando li penso, mi abbandono al clima che ottunde ogni capacità di vibrazione. Un'atmosfera azzurrastra, densa e vaporosa, avvolge le cose e via via sfocano. All'interno dei miei giorni non c'è nessuna necessità di dare un senso alle cose. Non ho ansia da incompetenza o il gusto della misura, mi sono convinto che il tempo migliore è quello perso a far nulla
Tutto si è sapientemente regolato secondo i ritmi del mio lavoro e delle cose che con esso accadono. Cerco di traversare inosservato una vita non vista, ed in ciò la sorte mi assiste
La stessa Marta fa le sue domande per provare a se stessa, non per sapere di me.
  
Non so come tutto sia cominciato, e sono convinto che a nulla valga saperlo. L'abitudine mi estranea dalla curiosità, e non lascio spazi al caso quando tenta di modificare la mia informità. Mi concedo ampi margini di prevedibilità e così gli imprevisti cozzano e se ne vanno senza lasciare conseguenze.
  
Non raccolgo speranze. Ne rassegnazioni. Non posso opporre nulla a tutto ciò. Forse non  voglio.

   Sotto quest'ombra immensa la dottoressa Marziali, direttore, mi parla. Pare voglia provarmi una cosa della quale va fiera: tra ella e l'ingegnere De Cotiis, capo di compartimento, esiste reciproca stima e familiarità e per provarmelo la dottoressa mi confida episodi a me non nuovi.
  
Io sto ad ascoltarla.
  
Conclude il consueto preambolo tenendo la mano languidamente poggiata su una cartellina, e con forzata circospezione mi dice: "Senta Mario, l'ingegnere tiene molto a questa cosa," e batte delicatamente l'indice sul tavolo. "L'ha affidata a me personalmente!"
Tace per un attimo affinché io possa cogliere il valore della cosa, e riprende: "So che posso contare su di lei, mi raccomando. Conosce l'amicizia che mi lega all'ingegner De Cotiis?.."
  
Soli io e lei, nella grande stanza un po' lugubre, nonostante fiori e colori, la luce filtra impietosa sulla grande scrivania e accende il viso duro e senza sesso di questo mio direttore, che continua ad abbassare il tono della voce verso un bisbiglio. Per udire tutte le parole sono costretto a spingere il torace sulla scrivania color mogano. "... So che di te, Mario, mi posso fidare... Potevo rivolgermi ad altri... Ma di te Mario so che mi posso fidare..."
E intanto inizia a spingere verso di me l'incartamento.
Fo' per prendere la cartellina verde ma la dottoressa la ritrae, lasciandomi con un gesto sospeso.
"La cosa è riservata. Tra me e te, Mario. Nessuno deve sapere."
Mille altre volte mi sono trovato con lei in simili situazioni, ma questa volta c’è il segreto. Sarebbe impertinente chiederle di cosa si tratta e poi non m'interessa. Forse è tutto falso. Come il quadro che la sovrasta. Certo è che lei, dietro il suo sguardo crudo, teme tutti. Non credo dorma la notte.
  
Per poter tenere il segreto, il lavoro dovrà essere fatto in archivio, al riparo di qualche scaffale ove s'inclinano cartelle ingiallite. Mi trovo a mio agio in quel luogo, e mi piace quella penombra. Slacciare la fettuccia verde di quei faldoni e leggere. Per cogliere appieno il significato di quelle carte bisogna possedere un particolare tipo di trasporto, ed io, in questi casi, riesco a ritrovare partecipazione. E' l'unico residuo di tensione rimasto in me, e per qualche ragione sconosciuta la mantengo. E' l'unica deroga al limbo che mi sono scelto nel mezzo preciso della mia esistenza.
  
La sede del mio ufficio mi ruota intorno. Quattro isolati. Un'area rettangolare con due grandi entrate simmetriche che si aprono sui lati più lunghi mentre le altre su quelli minori. Quattro piani: due si elevano e due si sotterrano. Una struttura quasi possente, per nulla ingentilita dalle quattro rappresentazioni in ferro che incombono su chi entra e chi va.
  
Di rado ricordo l'ansia degli inizi.
  
Il mese di ferie, al mare, c’è anche Marta, per me è un lungo passaggio tra timori e nostalgie, e mi sento indifeso tra piccole crudeltà straniere. Avverto assenze. Mi manca il morbido del cuscino e la mia scrivania bianca. Mi dà fastidio la sabbia se vedo gli sforzi dei giovanotti che spingono in mare il moscone già imbarcato da due belle ragazze. Mi manca il portapenne per la stilografica e quella cartella di pelle color malva che mi ha regalato Marta. Ha gusto lei, non ho dubbi. In gelateria, sul lungomare, cerco la pedana per poggiare i piedi: in ufficio se posso mi tolgo le scarpe.
E' per far piacere a Marta che sopporto la tortura. Mi sgomenta il pensiero che al ritorno potrò non trovare i miei colleghi. Quelle due persone lontane assumono una parvenza di significato.
Non sono niente i due colleghi. Ma so distinguerli.
  
Uno, detestato da subito, avrà la mia stessa età: ha ancora orizzonti che si attagliano bene alla sua mediocrità e presunzione. Se fossi costretto a guardarlo con occhio non mio, lo coglierei in atteggiamenti invadenti, da maleducato. Se impazzissi al punto di dare consigli, direi: "State lontano dal marrano!"
  
L'altro collega, prossimo alla pensione, si adatta meglio al mio modo di considerare le cose. Passa inosservato. Aspetta con pazienza il giorno in cui dovrà andarsene. Non dice mai nulla di superfluo. Un vero signore, parla poco. Il marrano, invece, non si lascia sfuggire occasione per vessarlo, ma egli risponde sempre con un sorriso. Il marrano, naturalmente, non è in grado di registrare. Ma il contegno del bravo Morselli non va sprecato; certe cose so ancora apprezzarle, se non altro per convenienza: una reazione dura tra i due potrebbe provocare discussioni anche accese. Io non sono interessato. Nella stanza c’è silenzio, se si escludono gli ottusi tentativi del marrano che si ostina a forzare conversazioni che nessuno richiede, ritrovandosi così all'interno di un soliloquio. Via via si quieta: deve essere anche bugiardo.
  
Qualcuno potrebbe essere invidioso della mia situazione. Lo riterrei offensivo. Le cose, si sa, si ottengono lavorando e soffrendo. Certo non tutte le seccature si possono evitare. A volte il mio direttore vuole un certo lavoro: tutto sembra starle a cuore, ma in realtà non le interessa che mantenere quel che le è toccato in sorte. Allora io cerco di affrontare le cose a mio modo e tutto passa. Io non so opporre rifiuti: lo trovo comodo: si evitano guai.
  
Spesso, inventando difficoltà di lavoro, porto una pratica direttamente in archivio, tra gli scaffali che perimetrano interminabili corridoi. Lo faccio per starmene da solo, in penombra, sui vecchi tavoli incastrati tra spazi impossibili. Camminando lungo la luce di lampade avare, controllo date, protocolli e cerco nelle calligrafie di ricostruire il volto dei vari personaggi che hanno traversato quei pezzi di carta. Quell'antro sotterraneo e angusto privo di geometrie e quant'altro rende gli ambienti presentabili, mi evoca qualcosa: una semplice reminiscenza scolastica: un che assai più profondo, che mi tenta e di cui ho paura. L'archivio è uno dei labirinti che si sfracellano contro le mie irregolarità e in essi ho l'impressione che viaggi qualcosa di avvelenato che percorre ogni antro così come nel mio sangue.
Ho imparato ad ascoltare le storie racchiuse nelle cartelle, e talvolta lascio tra le fettucce verdi qualcosa di me.

Tra il grappolo appeso ai bracci di metallo lucido, cerco una borsa da regalare a Marta per il suo compleanno.
Sotto le luci bianche de La Rinascente consumo, per la quindicesima volta, il rito liturgico e un po' ossessivo in cui è necessario ch'io esprima il meglio di me, conoscendo di già l'effetto deludente del risultato. Sono depresso.
  
Con Marta non basta il pensiero e neanche il valore dell'oggetto; si tratta soltanto di scontentarla il meno possibile, tra un’infinità di vincoli che, spostandosi come certe fastidiosissime luci al neon, m'hanno precluso la possibilità di capire ciò che veramente le piace. Non ultima tra le difficoltà, l'umore del momento.
 
Sebbene consapevole degli effetti, anch'io ho delle colpe in questi compleanni che puntualmente diventano una vicenda. Insisto troppo sulle borse, ciò è senz'altro vero.
  
Ho sempre amato le borse delle donne, e soltanto per pudore non ho mai chiesto ad altri se condividessero questo mio sentimento.
  
"Le borse delle donne," mi dico mentre ne osservo una e l'occhio mi cade su un'altra. Mi piacciono perché certamente contengono le proprietarie ed i loro misteri.
Aprirei e rovisterei.
Loro, benedette donne, non gettano mai nulla. Mantengono ancora il temperino slamato per la matita del trucco, pur usandone un altro: quello lì andava meglio... C’è qualcosa di misterioso in tutto ciò, e darei per sapere.
  
Ehi! Intendiamoci subito. Non ho mai aperto borse: "Ci mancherebbe!," ma lo farei ad ogni passante che mi desse questo istinto... Se per caso una sconosciuta si prestasse, rovescerei la sua borsa sopra un tavolo e sono certo che non rimarrei deluso. Penserei che i suoi segreti sono ugualmente celati dietro quelle piccole apparenze che magicamente si nascondono negli angoli dei singoli oggettini. Sono sicuro, starei per giorni a pensarci.
  
"Ecco qua, signorina," la porgo a questa biondaccia e pago.
  
Naturalmente ho scelto quella che più mi piace. A sacco. Con la tracolla, e leggere mosse blu.
  
Esco dal grande magazzino col guaio incartato da regalo, e una sorta di mano mi prende il gomito e mi fa oscillare. Una specie di sbandamento. Mi dico che è nulla!, e via via passa.
In questi momenti mi sento convalescente, sento il bisogno di qualcuno e di star solo a riflettere.
  
Il nostro medico, dottor Mezzanzani, dice con sicurezza che si tratta di lievi intossicazioni al fegato; io non ci credo, non ho fiducia in quel tale. Ogni volta che Marta mi costringe a una sua visita mi riscontra qualcosa che giustifichi dei medicinali. Appena fuori del suo studio getto le ricette. Il malaugurato giorno che Mezzanzani mi diagnosticherà ottima salute, andrà a farmi ricoverare. Immediatamente! Ho pensato anche a questa evenienza. Un'assicurazione mi copre da tale rischio, in una buona clinica, a scelta. In caso di morte ci sono dei soldi per Marta. Dovevo farlo, lei non ha un lavoro.
  
Al centro della piazza, con lo spazio intorno, il malessere ritorna e gli sbandamenti si fanno quasi continui: ho l'impressione che non ce la farò a raggiungere il marciapiede. Respiro forte.
  
Secondo l'enciclopedia medica, se non ricordo male, dovrebbe trattarsi di ansia, me l'ha detto Marta. Per lei quei fascicoli di medicina, dodici volumi, sono tutto. Consulta in continuazione e riferisce. Da qualche tempo ha allentato la morsa: credo aspetti nuove malattie... Si lamenta... troppa confusione... Ha preso a raccogliere Il successo a puntate. Studia per me questa materia, e tenta di mettermi a partito.
  
I toni sono diversi.
  
Sui malanni ha un fare serio, direi, giustamente rassegnato, anche se la conducono dal suo Mezzanzani: "Che razza d'uomo...".
  
Sul successo, no. Ha un tono più solenne, quasi saccente.

    Alle diciannove in punto suono al portoncino su via dei Serpenti: mi guardo intorno: nessuno sembra far caso.
  
Apre la vecchietta.
  
"Tenga," e le do' le solite cinque lire.
  
Sospetto che Maria mi faccia attendere per accrescere il mio desiderio. I miei lievi sbandamenti sono svaniti: grandezza di Maria. Compare all'improvviso, sempre da un punto diverso della casa. Saranno quaranta metri, sembra un castello.
  
Maria appare vestita a puntino. In sottoveste bianca. In pelliccia. Una volta venne in costume da bagno, non mi piacque. In alcuni tratti somiglia ad una signora della nostra mensa. Compare in ombra. In luce. In trasparenza del lumino della camera da letto.
  
Maria sa prendermi la mano. Comincia a baciarmi, dopo alcuni istanti di carezze ansima col naso.
  
Appena le sue dita scivolano assieme ho fatto tutto. Lei si mostra dispiaciuta.
  
"Che peccato, così presto... Toccami il petto, senza farmi male... piano piano," e senza gesti allude a ciò che voglio. Mi asciuga.
  
Prende le cento lire e con noncuranza le getta in un cassetto.
  
"A presto, Uberto."
  
"A presto Maria."
  
Le ho mentito sul nome per vigliaccheria. Lei anche. Dice di essere sarda. Non mi convince. Conosco troppo bene l'accento pugliese.
Non credo abbia alcuna importanza la verità tra noi.
 

  Naturalmente Marta non sa niente di tutto ciò. Anche se quando torno da Maria mi guarda con occhi strani. Forse è solo suggestione.
  
Eccola Marta. Lassù.
  
Mi aspetta in finestra.
  
Mi fa cenno con la mano, e io rispondo cambiando il gomito che regge il suo regalo.
  
Lungo l'uscita dall'ufficio guardo il riflesso della finestra e mi pare di camminare sulla lingua di un lago dove la mia figura torna capovolta. E proseguo dritto verso la fermata della circolare esterna destra, mettendomi tra la piccola folla che attende e cerca la vettura verde coi caratteri rosso e oro che scrivono dell'Azienda municipale. Qualche scossone, il ricarico sordo dell'accumulatore e si parte, tra militari, e ragazzi fuori scuola. A volte sale una crocerossina, una bella donna, austera, si fa vedere troppo di rado. Se la stagione non appanna i vetri guardo dal finestrino, altrimenti fisso il giornale piegato. Non parlo mai coi colleghi: non m'interessa il giro d'Italia dei ciclisti, e tanto meno parlare di lavoro. Si innalzano brevi lampi accompagnati dallo stridio delle curve, tra i rami dei platani. All'incrocio oltre il semaforo scendono in molti. La fermata successiva è la mia. Non più di dieci minuti di strada e sono a casa. Al numero settanta della via grande e larga che porta a piazza Bologna.
  
Getto lo sguardo nella guardiola, la luce è accesa ma la portiera è altrove. Lungo i vialetti in porfido e le aiuole in ordine, alzo lo sguardo verso il balconcino della cucina; se Marta non c’è mi agito, significa che non è in casa. Salgo le scale a piedi col pretesto di un po' di moto, in verità m'affanno per ritardare di qualche istante il rientro, e poi non ho mai avuto la monetina per far camminare l'ascensore a gabbia.
  
"E' tardi. Come mai?"
  
"Tardi?"
Anche se dovessi rientrare in casa con ore di anticipo Marta farebbe la stessa domanda. Dunque a domanda fissa: risposta invariabile.
  
Le ore del pomeriggio le conosco tutte. Un breve riposo. Se possibile il cinema. Forse qualche pagina di Balzac. E nella bella stagione un bagno di sole sul barcone al Tevere. Una volta a settimana, vo' da Maria.
  
Di rado per contentare Marta vado al teatro. La sera sentiamo la radio, sceglie lei.

   Oggi cercherò di occuparmi del lavoro che il direttore mi ha affidato, e chiederò l'autorizzazione per starmene in archivio. Non avrò difficoltà visto che il compito è riservato. 
 
Il signor Mancini, capo dell'archivio, inforca gli occhiali e gira l'autorizzazione tra le mani, sospirando. Lo osservo mentre cerca nel foglietto qualcosa che mi impedisca l'ingresso in quell'ambiente che sospetto egli consideri di sua proprietà. Fa sempre così, ma io riesco a superare ogni ostacolo che egli inventa. Il signor Mancini non vorrebbe le frequenti deroghe che riesco ad ottenere perché ciò toglie parte del suo piccolo potere. Egli controfirma. Sorrido, e m'avvio per il primo lungo corridoio. Mi oriento abbastanza e mi dirigo verso un punto approssimativo. Un rapido sguardo di controllo e ci sono. Mi sbaglio di pochissimo ormai. Le date e la geografia di quell'ambiente mi aiuta e mi suggestiona; un contesto ideale per conoscere la portata delle cose che reggono una piccola ma importante parte dell'esistenza comune.
  
In cima alla scala, dopo un lieve stordimento, leggo i riferimenti che sto cercando. Guardo meglio la costa rosa della cartella:
  
"Ecco qua! E' proprio lei!".
  
Tra i lacci che chiudono la cartella scivola una lettera. Il timbro postale imprime una data lontana, e proviene da un luogo che dal nome mi appare immerso nel torpore. Forse una piccola provincia. Apro la cartella e compaiono altre tre buste, come l'altra color crema con un leggero bordo verde. Le tre lettere sono tenute insieme da un elastico rosa sbiadito. Le date delle quattro buste indicano chiaramente gli intervalli intercorsi tra l'invio del carteggio, tenendo naturalmente conto delle rispettive risposte. Forse? Guardo meglio.
  
"Si, direi che si."
  
Queste quattro buste che stringo nella mano non fanno parte del fascicolo, è evidente. Saranno finite lì per motivi... forse intenzionalmente. Può' essere che dovevano stare nascoste... Sarebbero riapparse, se sarebbero riapparse, solo per caso.
  
"Dalla data dell'ultima lettera sono passati più di trent'anni... Ero uno scolaretto."
  
L'indirizzo del fermoposta della nostra città è netto e rotondo. La sigla e i numeri si rifanno senz'altro a quelli di un documento. Sono pochi i dati di identificazione, senz'altro non può essere una carta d’identità. Mentre l'elastico rosa che teneva tre delle quattro lettere s’è sbriciolato tra le mie mani, e cade a terra in mille piccoli frammenti.
  
Ho quattro lettere che qualcuno ha voluto nascondere, ha perduto, dimenticato. Potrei ignorarle e rimetterle al proprio posto: un'azione coerente alla mia vita.
  
"Perché rischiare di cambiare le mie cose?"
  
Ma dopo qualche esitazione mi riconosco il diritto a questa curiosità. Me lo riconosco perché non intravedo grossi rischi, si tratta di un segreto, i segreti portano guai, ma si tratta anche di faccende di tanto tempo fa, e, dunque, troppo lontane dalla mia vita, dai miei riferimenti.
  
"Trent'anni! non rischio di violare nessuna riservatezza, troppo tempo... La prima lettera è questa, indica il giorno più lontano... ".
  
"Resto sulla scala? No, soffro di sbandamenti, meglio che mi accomodi su quel tavolo dietro lo scaffale."

Luogo, data

 Spero vogliate perdonarmi l'azzardo ma ho sentito la necessita insopprimibile di sapere se esistete veramente o siete stato soltanto un bel sogno.
Vi scrivo perché possiate sapere che, malgrado certi vaghi rimorsi, sento di non dover accusare me stessa.
Quello che è accaduto con voi è la naturale conseguenza di una vertigine che non sospettavo potessi provare; e poi, una donna come me, felicemente maritata ad un uomo buono e leale, e madre, forse, affettuosa.
Non mi maledico per ciò che ho potuto permettere. Al contrario ho piena coscienza che è stato un bene. Ho visto. Mi sono liberata. Ho capito.
Mi chiedo se sia possibile voler bene a se stessi. Soprattutto per non annullarsi, falsamente proiettati in altri sentimenti, cresciuti con l'educazione e nelle convenzioni.
Soffro non per le difficoltà ma per la lontananza. Maledizione, se mi do’ pena! Non sarà poi così semplice vivere questa storia, ma consapevolmente vedo questa sofferenza compensata da un nuovo modo di sentire me stessa. Un modo che mi completa ricongiungendomi a quella parte di me che temevo smarrita. Un vuoto che mi riempie. Non potete immaginare quanto vuoto avessi dentro. Del buio che mi limitava anche nelle capacità più naturali, sebbene più nascoste. Mi pare di avere altri occhi, vedo diversamente ciò che mi circonda. Cammino con altro passo. Più spedito, o forse, solo più leggero.
E sono stata io a scegliere perché mi sono abbandonata semplicemente a ciò che ho desiderato, senza disconoscerlo, senza disconoscermi. E' stata una grande scoperta. Sono a nuova vita.
Sono i vostri pensieri e null'altro a mancarmi. Vi conosco troppo poco e troppo brevi sono stati i nostri giorni. Anzi, poche le ore che si sono dilatate schiudendo ciò che soltanto ora riesco a scorgere.
Spero di avervi, magari fatto sorridere, e non ridere, e spero che, ricordando quei momenti, proviate un po' di ciò che provo io.
Mi volete scrivere? Lo potreste fare all'indirizzo della mia discreta amica Bianca. Eccolo...
Con un vostro magnifico ricordo...

   Porto le labbra in avanti, e penso che devo assolutamente rispondere.
  
"In altre occasioni ho saputo eludere... Il mio limbo corre grossi rischi, ma oramai è tardi. Non dovevo aprire questa lettera." E nell’immobilità dell'archivio poggio la busta sul piano marroncino del tavolo incastrato tra due scaffalature di legno scuro.
Sono tentato di leggere subito le altre, ma freno.
  
"Chiede una risposta. La sta aspettando... Come posso?". E metto la lettera ben piegata nella tasca della giacca.
  
Risponderò oggi stesso e dopo dieci giorni, il tempo necessario a che lei riceva la lettera, leggerò la seconda delle quattro missive.
Dopo questa risoluzione sono più calmo. La signora mi pare molto coinvolta, non era nelle mie intenzioni. Se avessi saputo avrei  evitato questo guaio. Così come per lei, anche per me è una situazione nuova, e accettata.
  
"Si. Si, risponderle mi sembra l'unico modo per tentare di uscire indenne da questa vicenda."

   Il verde pallido delle buste usate da Marta per scrivere alla zia in Ancona non mi piace. Avrei dovuto comprare qualcosa di più anonimo, ma per questa volta le userò. Non ho voglia di scendere. Accenderei la curiosità di Marta che è dalla portinaia per il tailleur che si sta facendo confezionare.
Mi siedo al tavolo del soggiorno, e rimpiangendo di non aver mai posseduto uno studio tutto mio, guardo il foglio verdolino che ho davanti. Qualcosa mi trattiene e mi spinge. Ho la tentazione di invalidare tutto e di andare avanti, pensieri in combutta e contrasto. Ancora alcuni tentennamenti cercando di forare le tende bianche e troppo spesse che mi separano dal palazzo di fronte.
  
"Risponderò soltanto a questa lettera... Tanto... tanto  l'unica che ho letto straccerò le altre tre...".
Scriverò negando ogni significato a quanto mi ha scritto. E ciò dovrebbe scoraggiarla, e forse così nella lettera successiva potrei cogliere la sua rassegnazione. Sarò, in questo modo, liberato dalle altre lettere, senza leggerle.
  
"... Mi sono detto che leggerò anche la seconda lettera...".
  
Rileggo con attenzione lo scritto della donna. La mia mente si svuota. Non ho voglia di fare più nulla.
  
Mi metto a scrivere.

La mia città, la data 

di qualche giorno successiva a quello della prima lettera.
(Un’assurdità inevitabile. Devo stare attento a non commettere neanche il più banale degli errori).

    La vostra lettera è giunta inaspettata. Permettetemi, però, di dirvi che sono rimasto assai sorpreso dal suo contenuto.
Un coinvolgimento così forte è incomprensibile per una storia come la nostra, senza apparenze. Un'avventura tra due sconosciuti non può provocare il tumulto che voi così bene avete provato a rappresentarmi.
In altri casi non è stato così. Nessuna donna mi aveva mai chiamato davanti a responsabilità che non ho mai creduto di avere. Una tempesta per me non immaginabile. Me ne dolgo. E vi prego di credere che in me non c'era alcuna intenzione. Ho ceduto, e ora mi rendo conto dell'errore, ad un repentino trasporto... siete una bellissima donna (eccome vi ricordo!), ma non mi sento di dire di più.
Le circostanze poi... I turbamenti che dovrebbero farmi sentire colpevole... Siete felicemente maritata, e madre!, null'altro dovrebbe avere valore. Non credete?
E' stato tutto molto bello, ma è stato. Non dobbiamo attenderci altro.
Perdonatemi.
 
Addio.

 

   Rileggo la lettera, tolgo qualche inutile virgola. Il senso è chiaro poiché è opposto a ciò che provo. Tutto troppo confuso.
  
"Credo di agire per il meglio..."
  
Sento Marta che rientra, e piego per bene le carte che scivolano nella mia borsa.

   Il lavoro in archivio è finito. I risultati l'ho consegnati alla dottoressa Marziali che mi è parsa sinceramente soddisfatta: potrà fare una buona figura, e mi rallegro per lei.
  
Per me tutto sarebbe tornato come prima, senza alcun trascinamento. Invece adesso i miei giorni vivono l'attesa. Mi trovo a fare i conti col gioco dei minuti e dei timori.
  
Un'altra settimana è passata, o forse quanto basta per dare al tempo il tempo.
La seconda lettera della signora mi allarma più della precedente, e più di quanto osassi prevedere. E la mia reazione a ciò che sto leggendo mostra impietosamente il profilo del mio coinvolgimento.

Luogo e data

    Voi così volete uccidermi e allora dovrete affrontare amari pensieri.
Ma cosa credete? Pensate veramente di potermi impedire di riconoscervi nella mia gioia?
La vostra volontà di abbandonarmi, sebbene crudele, non m’impedirà di affidarmi alla vostra scoperta. Se pensate una cosa del genere vi illudete, credetemi. Il sentimento che finalmente ho conosciuto abbraccia tutto. Io amo voi, e amo me. Non sono riflessi. Per ogni cosa ho scoperto una luce che non offusca le altre. Anzi! E questa è la prova che in me c'è ancora vita. Qualcosa di sconosciuto mi chiede come ho potuto vivere prima. Solo ora sono capace di un sentimento compiuto verso i figli e mio marito. Finalmente amo questa casa, la mia città. La gente. Naturalmente da questo amore non posso escludere me stessa. E
voi siete il tramite di tutto questo.
Non vi negate, per l'amore del cielo!
Forse mio marito sospetta qualcosa: l'altro giorno l'ho chiamato col vostro nome, ma non ho alcuna intenzione di nascondermi. Non so se riuscirò ad ingannarlo a lungo. Anzi. Vorrei coinvolgerlo, ma non so come. Aiutatemi piuttosto.
Vi auguro, e spero, che possiate sentire le mie stesse sensazioni, non importa se sarò io a procurarvele: certo! mi piacerebbe. Ma forse sarebbe troppo. Prego che anche voi sentiate quello che mi stupisce. Anche voi, forse cattivo, avete diritto alla mia stessa nuvola.
Desidero e chiedo di poter fare un po' di strada assieme, poi scoprirò il modo per andare da sola.
Devo parlarvi.
Il foglio non basta ai miei capelli e non sa dare il calore che solo in parte avete conosciuto.
Verrò nella capitale e vorrò vedervi. Vi stringo forte.

 

   "Assolutamente da evitare questo incontro e non sarà facile. Dalla lettera appare chiara la determinazione della donna...".
  
Qualcosa devo pur fare e questa necessità mi viene da una lucidità non più salda. Nei miei giorni le speranze e i timori si aggiungono a ragionamenti assurdi e il tempo si diverte a coltivare aspettative ingiustificate.
Immagino l'incontro. Le parole e i gesti. Mi spaventa l'idea di non sapere che volto e che voce abbia questa signora che per consolarmi immagino molto bella. Vivo brevi deliri, sto imparando a conviverci. Fioriscono nel deserto, di notte o all'alba, e non si dissolvono tra le luci forti e opache dell'affollata consuetudine.
  
Il Direttore mi ha chiamato per un approfondimento del lavoro appena concluso, e stamani in archivio ho intravisto un uomo. Un tipo sfuggente, forse taciturno. L'ho salutato mentre rimettevo a posto il mio fascicolo ed egli, tipo veramente singolare, non ha neanche risposto al mio saluto. M'ha dato l'impressione di allontanarsi in tutta fretta e per via delle luci malaticce dell'archivio non ho neanche fatto in tempo a vederlo come avrei voluto. L'abbigliamento dell'uomo era almeno stravagante, con il colletto della camicia rigido che si riempiva di un cravattino a fiocco: come un tempo, e, non posso giurarlo, mi pare portasse le ghette.
Se n’è andato. Sfoglio il fascicolo ed ho la sensazione che l'uomo mi stia più vicino. Mentre rimetto in ordine le carte ho la certezza che sia nascosto dietro uno degli scaffali.
  
"Forse laggiù. Prima della raccolta degli incartamenti dal 1936 al 42."
  
Per verificare ciò di cui sono certo, rimetto a posto ogni cosa. Fingo di allontanarmi. Mi nascondo. Vedo la lunghezza senza prospettive del corridoio principale e la strozzatura di altri spazi ricavati dove la luce arriva più o meno a metà pavimento.
  
L'uomo come se scivolasse torna sul punto dove l'ho sorpreso. Si guarda intorno e rovista nel fascicolo. Muove le mani con gesti nervosi, cerca qualcosa che conosce bene perché salta il resto senza nemmeno guardare.
  
"A quale titolo lo affronto... Per quale pretesto... In questo luogo così isolato... non dev'essere un tipo disposto a dare spiegazioni."
  
Dal mio nascondiglio lo vedo benino. E' un bell'uomo, distinto. Pare essersi liberato da una fotografia ingiallita che lo imprigionava.
  
"Me ne vado...".
  
In punta di piedi m'avvio per antri secondari verso l'uscita. Sono in apprensione e spero di trovare presto la porta principale e la faccia del capo archivista.

   Mi rado e avverto più che mai il frastuono della radio che Marta, benedetta donna, ascolta senza soste. L'accenno di una canzone mi fa tornare in mente con maggiore prepotenza l'uomo visto ieri in archivio, e l'irrefrenabile desiderio di scrivere alla signora.
Faccio un breve conto.
  
"Ne sono trascorsi sette dalla sua seconda lettera, posso scriverle di nuovo. Lo farò in ufficio: Marrano permettendo."
  
Per non destare sospetti e far le cose con giudizio sarebbe opportuno attendere ancora un paio di giorni. Ma sono pentito di quanto ho scritto e debbo riparare.

La città, la data

 Perdonate. Non volevo offendere i vostri sentimenti, so riconoscerli giusti. Ognuno ha diritto alla felicità che sa darsi. Nessuno la può limitare.
... ... Devo confessarvi, non senza imbarazzo, che ora anche io sento di poter ragionare come voi. Proprio ciò che mi avete scritto ha aperto il mio povero mondo ad altre cose. Io in passato...
... ... per la felicità che voi dite poter essere conquistata, potrebbe essere causa di dolori per altri. Sinceramente, ditemi: siete certa, ma certa veramente, di assumervi una responsabilità così grande? Pensateci. Per amor vostro.
Vi prego, prima di stringervi a me, di
riflettere su un'altra cosa: un nostro eventuale incontro potrebbe sugellare qualcosa di veramente grande, è un rischio per voi e per me...
Un saluto sulla fronte.

   Vado a comprare le sigarette, voglio le Serraglio con la scatola rigida e blu, col bigliettino rifilato in oro per prendere appunti sull'odore di tabacco dolce.
Spedisco la lettera e faccio il conto per sapere quando potrà aprire l'altra busta, la terza.
  
"Dovranno passare dieci giorni o forse nove, otto basteranno."
  
Non è stato affatto elegante il modo in cui ho risposto alla donna, non farò una bella figura. Più che scrivere, maledizione fossi capace!, si è trattato di un penoso balbettare e quel po' che si potrebbe capire si scontra con ciò che desidero.
  
Intanto passano giorni di sottile agitazione e l'attesa, per me che non attendevo più, mi consuma e fortifica. Ho nuovamente bisogno di scadenze, di fatti.
  
La mia lettera potrebbe provocare una chiusura da parte della donna, e sarebbe giustificata.
  
"In questo caso è evidente che non sarei autorizzato a leggere le altre...".
  
Sopra ogni cosa è il tono che non funziona. Troppo rigido e di circostanza. Suona falso proprio quando doveva essere più sincero. E' andata!, ma voglio riservarmi una speranza. Spero che la sua sensibilità le farà cogliere il mio stupido nascondermi, e allora potrà leggere oltre le parole: spero capisca che ho cercato di difendermi.
Non ho idea di come sia il suo viso... una donna di cui so niente. E' aberrazione.
  
"Devo riconsiderare questa storia: sono stato preso alla sprovvista: non posso consentirmi."
  
Potrei dire molte cose, ma riesco soltanto a trovare insopportabili i giorni che mi separano dalla lettura della prossima lettera.
  
Appena posso cerco di scendere in archivio. Dell'uomo uscito dalla foto ingiallita nessuna traccia. Chi era? E' da pazzi stare a pensarlo, temerlo addirittura. Più verosimilmente s’è trattato di un fantasma; il primo di un affollamento che sta entrando nella mia mente, o, addirittura, nella vita.
  
Domani aprirò la terza lettera, prima di andare a lavoro; in bagno, anticipando la benedetta radio di Marta.


Luogo e data

 ... ... E non so neanche esprimervi tutta la gioia che mi avete dato concedendomi di fare almeno un po' di strada in vostra compagnia. E' meraviglioso, ci contavo. Vi confesso che ne ero certa, una questione di  intuito, di sensibilità femminile, suppongo.
Ho dovuto fare, e spero mi perdoniate, una piccola forzatura che ha aiutato me e, credo, voi.
E' assai bello guardare giù nel giardino e sapervi accanto. C’è un patto che ci lega.
... ... ... Mi chiedete di considerare i rischi di un viaggio. Apprezzo la vostra premura e apprezzo di non trovare nella vostra lettera alcun segno che provi ad impedirmelo... sento i bambini andare a scuola, le loro voci le trovo sopportabilissime. Vi ringrazio.
A questo punto dovrò organizzarmi per bene, nella prossima lettera vi saprò dire meglio. Bene avete fatto a rispondermi subito, la prossima mia arriverà in espresso. Mi è impossibile sopportare la pena dell'attesa.
Ora che sono certa che potrò rivedervi e stringervi a
me.
  
A presto.

   Non mi ero sbagliato, è riuscita a leggere anche quello che non era scritto, è cosa importante da non attribuire al caso. C’è del profondo, e lo avverto.
  
"Una cosa così assurda che pretende legittimazione... in fondo queste cose non hanno spiegazioni."
  
Attraversando questa notte vorrei indagare. Si tratta di un lavorìo febbrile. E' il ritmo ritrovato, non ho più tregua. I pensieri si accavallano, ho intorno a me piccole immagini spezzate.   "Adesso il desiderio risponderebbe alla mia sconosciuta..."

    "Il cuscino s'è legato a un lembo della coperta... Ecco! Così va meglio...".

    "Il migliore che conosco è l'albergo Belluno... Si può stare in pace...".

    Treno rapido proveniente da Siracusa viaggia con centoventi minuti di ritardo... Addetto agli accumulatori si rechi al binario quattro...

   "Che baraonda la stazione."

    Basta! E' inutile. Non ce la faccio! Sono le tre e trentacinque, un'ora in cui si muore soli.
L'indirizzo e l'affrancatura espressa è già pronta sulla busta. Rispondo alla signora.

 

Luogo, data, l'ora
("Questa è importante affinché lei comprenda").

Venite vi prego. Fate al più presto.

 

    Poche parole, scritte con grafia minuta al centro del foglio, per esaltare lo spazio lasciato libero. Perché lei possa leggere questo importante messaggio.
  
E' rimasta da leggere la quarta e ultima lettera. L'ho in mano, come m'aveva promesso la donna ha spedito un espresso. Non aprirò prima di sabato.
  
"Quattro giorni ancora, un’eternità che si può misurare: delle peggiori...".
  
E' l'alba. Attraverso i vetri della finestra fisso un punto del palazzo di fronte. Un balconcino coi gerani ancora reclinati. Una finestra chiusa.
Seguo le mosse del tabaccaio che intanto apre la bottega, è mattiniero davvero. Forse dovrò riordinare qualcosa.
  
"Santo Iddio!".
  
Guardo meglio liberandomi della tenda che non mi dà alcun fastidio. Il cuore corre per finirsi, mi lacera il petto: davanti alla bottega del tabaccaio c’è l'uomo della foto ingiallita, il tale visto nell'archivio dell'ufficio. Guarda verso la mia finestra. Si accorge di me. Sguscia nella tabaccheria.
  
Non mi muovo di qui. Fisserò la bottega finché il tale non esce, e intanto il cuore raddoppia alcuni palpiti. M'asciugo il sudore.
  
Attendo per il tempo necessario a sbrigare una qualsiasi faccenda di tabaccheria. Niente, egli non esce. Aspetto ancora. Niente.
  
Marta si è svegliata e quella maledizione di radio ha ripreso a parlare e cantare.
  
"Devo andare in strada, non posso sottrarmi al confronto con quell'individuo. Devo assolutamente sapere cosa mi debbo attendere."
  
Prendo la giacca sulla poltroncina dell'ingresso e mentre mi tiro dietro la porta sento Marta farfugliare qualcosa. Le rampe di scale mi danno un senso di vertigine. Resisto. Esco dal portone. Un batter d'occhio e sono sul marciapiede opposto. Mi catapulto nella tabaccheria e il vecchio al banco di marmo trasale.
  
Lo sconosciuto non c’è e in strada non s’ è visto.
  
"Desidera," chiede il vecchio, schiarendosi la voce.
  
"Serraglio col pacchetto rigido."
  
"E' rimasto senza sigarette?".
  
"No. In tasca ho un pacchetto ancora pieno."
  
"Mi era parso... E' entrato con una fretta... A quest'ora che Dio la benedica!".
  
Faccio come chi non ha sentito, e: "Strano quel tipo che è uscito poco prima che io entrassi...".
  
"Quale tipo?".
  
"Quello col cravattino a fiocco e le ghette," azzardo.
  
"Nessuno è entrato o uscito prima di lei, signore," dice il tabaccaio sorpreso, e: "E chi porta più le ghette oggigiorno?".
  
"Me lo chiedo anch'io. Chi le porta più. Arrivederci," e metto le sigarette in tasca.
  
Uscendo devo poggiarmi al muro per evitare uno sbandamento più forte. Alzo gli occhi. Marta è in finestra, indovino il suo sguardo allarmato. Faccio un breve cenno con la mano, mentre traverso la strada per rientrare in casa.
  
"Mi era parso di intravedere un vecchio compagno di scuola."
  
"Di Cesare?," domanda Marta arrossendo.
  
"Si. Ma non ho fatto in tempo... ".
  
"Peccato, avrei avuto piacere... ".
  
"Si, certo. Anche io.".

   Quest'ultima notte... un delirio fatto di ore opalescenti ed elastiche: sono angustiato. Stremato. Mi addormento appena la sveglia col trillo meccanico mi infilza il cervello. Dalla cucina arriva odore di caffè.
  
E' sabato. Uno strano senso di indecisione, tutto fluttua e rulla. Mi arrivano alcune pulsazioni ritmate in modo singolare, come in un corpo non pienamente sviluppato.
  
"Ecco perché... E' sabato: la lettera è arrivata!".
  
Un suono pneumatico mi riporta alla realtà, per quello che una parola del genere può significare nella mia situazione. Posso, dunque, leggere la lettera.
  
Non troppo fermo sulle gambe raggiungo la poltroncina ai pedi del letto, e sfilo lievemente la lettera dalla tasca interna della giacca.
Ho difficoltà ad aprire la busta perché comando a fatica le mani. Leggo.

 

 Luogo e data.

 Arriverò al binario numero 9, domani alle ore 12 e 35.

   La donna ha usato la mia stessa, diciamo tecnica. Le poche parole, rotonde, nitide, sono al centro del foglio.

    La settimana è trascorsa come ha potuto, non ricordo neanche se ho finito il lavoro per il mio Direttore: credo di si: non m'avrebbe fatto vivere, sempreché io stia ancora su questa terra.
  
Mi svegliano le ruote di un tram e subito dopo il ricarico dell'accumulatore di corrente.
  
Oggi è quella domenica, e quest'idea assume il sapore e la forma di vapori stranamente simili ad un grosso antro peloso; intorno a tutto ruotano due parole e null'altro: binario 9... ore 12 e 35, bin..io 9.. 12... 5.
  
"La stazione è vicina, a piedi impiegherò anche meno di dieci minuti."
  
L'altoparlante della stazione strascica velocemente su partenze, arrivi, ritardi e, forse, invita dei ferrovieri a portarsi altrove. E' impossibile udire la voce metallica che distorce ogni suono, anche il campanello che annuncia il prossimo avviso.
  
"Mancano dei minuti."
  
I viaggiatori si affrettano ai treni. Un tale carico di bagagli mi poggia una valigia sul piede. Una signora segue i gesti di un ferroviere che ripete pazientemente due volte la stessa cosa.
  
Via via la scena rallenta e le poche fisionomie che ho trattenuto si dileguano assieme a spigolosità e gesti. Un'atmosfera finalmente placata mi cancella lo sguardo dal movimento. Anche le luci si bloccano e contrastano col grande cartello nero forato da un grande orologio. La mie lancette sono allineate a quelle molto più grandi: mancano ormai pochi minuti.
  
Per i miei occhi la stazione s’è fatta immobile e deserta. Ho davanti un lungo binario che vedo storcersi e stringersi in lontananza. Mi sovrasta un cartello bianco, una grossa lettera nera scrive un nove.
  
"Sono le 12 e 55, non c’è nessun treno per me."
  
Ecco. Un ferroviere. E' vecchio, senz'altro conoscerà gli orari.
  
"Signore lei scherza. Il treno che attende è stato soppresso da almeno diciotto anni, forse un po' meno."
  
Mi sento al centro dello sconforto. Non ho più speranza, e la luce si fa più forte, per annullarmi.
  
"Signor Mario Salvadori?," mi chiede alle spalle una voce calda, pacata.   "Sono io," mi volto.

    Due lampi. Due schianti secchi, maligni.

E l'uomo dell'archivio, quello uscito dalla foto ingiallita, abbassa la pistola. Nella luce sempre più forte, intravedo una smorfia dolente sul suo viso. Nient'altro.
  
"Si ora sono sicuro: porta le ghette."
  
Tutto diventa buio. Un buio caldo e liquido attraversato da due brevi pensieri d'istinto.
  
"Tutto impossibile, cose di un altro mondo... Se non dovessi svegliarmi chi penserà a Marta, la mia povera sorella."
  
Qualcuno forse ha posato un telo sul mio corpo, anche una voce.

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