IL PASSETTO

CORRIDORE DI BORGO

di Antonio Martini

 

Il “Corridore di Borgo” o “Passetto di Borgo” o “i Coridori” - come lo chiamavano con pronuncia romanesca gli abitanti della zona prima della diaspora - è innalzato sul tratto delle Mura Leonine che uniscono Castel Sant’Angelo al Palazzo Apostolico Vaticano. Con il nome di Corridore o Passetto indichiamo ormai il corridoio vero e proprio e, per estensione, il muro che lo sostiene. Incastrato tra l’imponente residenza papale e l’orgogliosa tomba imperiale, il Corridore è rimasto soffocato e, poi, ignorato. Ha subito i più gravi affronti tanto da scomparire perfino alla vista, intercluso tra modeste case, botteghe, magazzini e lavatoi. Era difficile considerarlo uno dei più indicativi testimoni della Roma medievale che aveva direttamente partecipato a turbolenze e travagli.

Dalle sue fondamenta e dai suoi merli - pur con un sommesso, quasi pudico, mormorio - sgorga il racconto di un millennio e mezzo di storia e cronaca di un territorio che accoglie uno dei più significativi crocevia del mondo. Intorno a lui si alternarono feroci invasori e pii pellegrini, finché raggiunta una certa tranquillità, vede ora solo pellegrini e turisti, anche se - con un minimo d’attenta sensibilità - si può ancora scorgere in lui una sopita, torva fierezza.

Sul Corridore si è tanto scritto che può sembrare inutile aggiungere altro, infatti, non aggiungiamo nulla a quanto già noto, ma esponiamo le sue vicende soltanto per spiegarne la vita a chi, nella mostra e nel CD, lo vedrà spesso rappresentato in tanti particolari: a sfondo di vie e vicoli. Dopo le evoluzioni urbanistiche del Rione Borgo, anche il Corridore - almeno per la parte interna, quella isolata negli anni Trenta - è stato restaurato, acquistando fisionomia e colore che, forse, non aveva mai avuto.

A questo punto, in un’atmosfera di rinnovata sensibilità, è auspicabile che si affronti la situazione con coraggio, si isoli anche la parte esterna liberandola da appoggi e superfetazioni - peraltro quasi sempre abusive - e si restituisca la sua dignità a questo antico testimone della storia di Roma.

Solo per chiarezza d’esposizione precisiamo che il territorio del Rione Borgo, per quello che tuttora ne rimane, è nettamente diviso in due parti urbanisticamente ben distinguibili: quella tra il Corridore e il Tevere - la più antica - è la Città Leoniana e l’altra, tra il Corridore e il Rione Prati è la Città Pia. Quindi la parte interna del Corridore, parassita delle vecchie Mura Leonine, è quella che guarda verso via della Conciliazione e la parte esterna verso Borgo Pio e i Prati.

Seguiamo quindi le vicende di questo singolare monumento, in ordine cronologico lasciandoci guidare dalle conclusioni dei suoi più accreditati studiosi.

Le prime mura costruite in quella zona a scopo difensivo risalgono all’epoca di Totila re dei goti che entrato in Roma il 17 dicembre 546, scoprì immediatamente il valore strategico di Castel Sant’Angelo con il quale, insieme al ponte, avrebbe potuto dominare Roma e il transito per la basilica di S. Pietro. Vi si asserragliò con le sue truppe, ma l’anno successivo, dovendosi allontanare da Roma lasciò una guarnigione, forse non molto numerosa, alla quale volle assicurare un più ampio spazio fortificato al di fuori del Castello. Per approntare a difesa questo accampamento Totila fece costruire una robusta cinta muraria, alta circa 5 metri, usando blocchi di peperino rozzamente squadrati provenienti forse dalle stesse strutture del Castello. Nel 552 Totila morì e l’accampamento fu abbandonato e cadde in rovina. Parte della muraglia, ancora esistente, fu in parte utilizzata nel IX secolo per il muro di Leone IV (847-855) e ne possiamo vedere ancora i resti alla base del Corridore.

La zona tra Castel Sant’Angelo e S. Pietro, sempre di notevole importanza per il transito dei pellegrini, per l’esistenza stessa della basilica Costantiniana, nonché degli ospizi per i viaggiatori, ebbe sempre notevole importanza, ma per lungo tempo non vi furono interventi tali da giustificare delle fortificazioni per difenderla. Nel 781 fu presa la decisione di trasformare l’antica diaconia dei Ss. Sergio e Bacco in residenza per Carlo Magno e per la sua corte in occasione del suo secondo soggiorno romano. L’evento più importante per quella residenza, che nel frattempo era stata migliorata e abbellita, ed era ormai chiamata palatium Karoli, fu il soggiorno di Carlo Magno a Roma quando venne nuovamente per l’incoronazione, in S. Pietro, nella notte di Natale dell’800.

Poiché si cominciava a temere il pericolo di qualche ostile iniziativa saracena Leone III (795-816) in accordo con Carlo Magno decise di far erigere una barriera difensiva a protezione della Basilica e della residenza imperiale, i veri nemici erano i saraceni, ma nello stesso tempo si voleva acquisire anche la certezza di poter far fronte a sommosse del popolo romano che mal tollerava l’autorità papale e imperiale che minacciavano le loro libertà comunali. Il progetto prevedeva di racchiudere nel muro la basilica di S. Pietro, il palatium Karoli e gli altri edifici che intanto vi erano sorti intorno, le altre residenze della zona e le Scholae peregrinorum. Presumendo un più vasto progetto, D’Onofrio ritiene che << l’ampliamento delle mura di Borgo … era stato deciso espressamente da Carlo Magno … per costruire una vera e propria testa di ponte carolingia in territorio romano.>>

Il 12 giugno 816 muore il papa e i romani, sempre gelosi della loro libertà e temendo il predominio del potere papale, abbattono una gran parte dei manufatti fino ad allora realizzati così che la basilica e gli edifici residenziali sono di nuovo senza alcuna difesa.

Molti anni dopo, nell’846, durante il pontificato di Sergio II (844-847), venne in evidenza l’insensatezza del gesto dei romani quando i saraceni, che attendevano soltanto un momento favorevole, il 23 agosto con una considerevole flotta entrarono nella foce del Tevere, senza incontrare una seria resistenza, sbarcarono e raggiunsero Roma. Furono fermati dalle mura della Città, ma si abbandonarono al saccheggio e alle distruzioni nelle zone delle basiliche di S. Pietro e di S. Paolo totalmente indifese, prima ancora dell’intervento dei Longobardi comandati dal marchese Guido da Spoleto che li ricacciarono in mare.

Dopo quell’evento luttuoso, nell’ottobre dello stesso anno 846, l’imperatore Lotario, nipote di Carlo Magno, aveva pubblicamente patrocinato il restauro dei danni fatti a S. Pietro dai Saraceni e la costruzione di serie opere difensive del territorio vaticano. Da Aquisgrana in un suo capitolare, consigliò a papa Sergio II, ai romani e a tutti i vescovi della cristianità di raccogliere fondi ad murum faciendum circa ecclesiam beati Petri Apostoli Rome: << che sia costruito attorno alla chiesa di San Pietro un muro adatto e perciò vogliamo che da ogni parte del nostro regno si raccolgano denari affinché una così importante impresa, che riguarda la gloria di tutti, sia compiuta con l’aiuto di tutti>>; l’appello era particolarmente rivolto ai vescovi che dovevano diffondere l’idea della necessità di contribuire alla costruzione di quella fortezza per salvaguardare la chiesa dell’apostolo Pietro.

Nell’848 si presentò di nuovo il pericolo di un’invasione dei Saraceni che giunsero davanti ad Ostia con un’ingente flotta con la chiara intenzione di risalire il Tevere e ripetere il saccheggio che gli era così ben riuscito due anni prima. Stavolta i romani non furono colti alla sprovvista, infatti, alla flotta papale già pronta si unirono rapidamente quelle di Gaeta, Amalfi e Napoli che, anche con l’aiuto di una tempesta, misero in fuga le navi nemiche, molte ne affondarono e si fece gran numero di prigionieri. Il ricordo di questa battaglia navale, cui non mancò l’attribuzione di un miracolo, è mirabilmente affrescata in una delle stanze di Raffaello in Vaticano.

All’inizio del pontificato di Leone IV (847-855) la zona di Borgo fu colpita da un’altra grave sciagura per un incendio che iniziato nel quartiere dei sassoni, spinto dal vento, si estese alle case dei Longobardi e distrusse buona parte dell’antica Portica e per puro caso risparmiò la Basilica Costantiniana. Il fuoco era alimentato dal legno con cui erano costruite quasi tutte le case degli stranieri; nonostante ciò l’incendio diminuì di intensità e cessò quasi improvvisamente, tanto da far sorgere l’idea che fosse stato fermato per intercessione delle preghiere di Leone IV che avrebbe comandato alle fiamme di spegnersi; in ogni caso tale pia tradizione e il ricordo dell’incendio rimasero nella memoria popolare e nella storia tanto che gli affreschi di una delle Stanze di Raffaello in Vaticano sono dedicati proprio alla raffigurazione dell’incendio di Borgo.

Leone IV nell’848 iniziò la costruzione delle mura, seguendo forse il tracciato di quelle progettate da Leone III delle quali nonostante la distruzione doveva ancora essere rimasta qualche traccia. La cinta muraria avrebbero dovuto circondare a difesa la zona di Borgo, la Basilica vaticana, le residenze che vi erano sorte intorno e la sovrastante collina per scendere fino al Tevere, in pratica circoscrivere quella che si chiamò la Città Leoniana. La più significativa conseguenza di tale iniziativa fu l’unione del Borgo con il resto della Città cui ormai era difensivamente collegato anche se le Mura Leonine, superato il colle vaticano, scendevano al Tevere. Fu una unione soltanto topografica e difensiva perchè il Borgo resterà separato da Roma, con un proprio governatore, un tribunale e un suo carcere fino al 9 dicembre 1586 quando divenne il XIV Rione.

I bastioni che circondarono la Città Leoniana e che in parte sono ancora riconoscibili <<… sono, a ragione, considerati un capolavoro dell’architettura militare del Medio Evo. Leone IV volle - dice il Lanciani - in certo qual modo, imitare l’architettura dei bastioni di Aureliano. Ai suoi diede dodici piedi di spessore, con due gallerie sovrapposte. Quella inferiore era formata da arcate traforate dal lato della difesa; l’altra era collocata dietro le feritoie … [il muro] è tanto accuratamente disposto nella pianura che va dal Vaticano alla fortezza, il muro di Leone IV diventa di costruzione più semplice sul colle, il cui ripido declivio costituisce di per sé una potente difesa naturale. Là non esistono gallerie, ma un muro pieno e soltanto un cammino di ronda in cima al bastione. Gli angoli più esposti furono muniti di torri circolari; ne esistono ancora due, che spiccano nell’aspetto generale del Vaticano. Una che si erge a cinquantasei metri al di sopra del livello del mare, domina un immenso orizzonte verso la Campagna e la costa; è questa che viene chiamata “la torre da dove si vede il mare”, nelle prime raffigurazioni del Vaticano.>> Per lo sviluppo urbanistico, questa visuale è nettamente cambiata.

Alla base il muro era costruito in opus coementicium per un’altezza di circa sei metri su cui poggiava il camminamento merlato. La muratura esterna per una maggiore resistenza era costruita in opus latericium eseguito però quasi completamente con eterogenei materiali di recupero. Per quanto oggi possiamo giudicare dalle parti conservate della primitiva costruzione è evidente che i costruttori - come abbiamo notato - furono costretti a risparmiare sui materiali e sul tempo. Tuttavia la fortificazione nonostante queste carenze costruttive, i secoli trascorsi, i danni e le manomissioni subite, mostra ancora una sua robusta struttura da cui chiaramente traspare la notevole spesa e lo sforzo tecnico e organizzativo a suo tempo sopportato.

La lunga muraglia era intervallata da oltre quaranta torri fortificate, turres castellatae, con dormitori, depositi di armi e materiali e riserve d’acqua e organizzate per resistere autonomamente avendo anche la possibilità di colpire il nemico nella parte interna qualora fosse riuscito a penetrare nella cerchia fortificata.

Non conosciamo chi progettò e chi diresse l’opera, che del resto non presentava notevoli difficoltà, poiché bastava seguire l’andamento del terreno e forse il percorso già tracciato al tempo di Leone III; come abbiamo visto la parte più curata fu quella in piano tra il Castello e l’inizio della collina vaticana che era la parte più esposta e che racchiudeva gli antichi e i più recenti edifici e ovviamente la Basilica Vaticana. Per il resto la collina stessa indicava il percorso delle mura che così formarono un rettangolo che partendo dai bastioni di Castello, dopo il loro percorso scendevano a chiudersi al Tevere.

La direzione dei lavori, a giudicare da ciò che resta, dovette essere ben organizzata, anche se non molto accurata, forse per l’uso quanto più fu possibile di materiali di recupero e la modesta preparazione tecnica dell’eterogenea mano d’opera impiegata.

Quanto al finanziamento necessario, poiché l’appello dell’imperatore non aveva avuto un sufficiente riscontro, il Papa si rivolse a Lotario che sembra aver mandato in Roma <<molte libre d’argento>>. Per le maestranze Leone IV <<tolse da diverse città, masse e monasteri, degli uomini in fatto d’architettura assai esperti e ai loro umilissimi servigi ponendo i Saraceni …>>: così l’Adinolfi ne La Portica …. Oggi però siamo in grado di essere più precisi sulla provenienza della mano d’opera impiegata nella costruzione.

Oltre ai prigionieri saraceni catturati nella battaglia di Ostia lavorarono delle maestranze provenienti dalle domusculte, e in base alla documentazione rimasta sembra essere la prima notizia riguardante questa militia che il Papa reclutava nei suoi possedimenti terrieri.

Per capire meglio l’importanza di questo evento occorre sapere che le domusculte, allora istituzioni relativamente nuove la cui ubicazione coincideva con i limiti dell’antica Campagna Romana, delle quali se ne fa spesso menzione nel Liber Pontificalis, erano un caratteristico stanziamento rurale costituito da un villaggio sparso - nato, per solito, su un antico centro - organizzato autonomamente facente capo ad un centro con chiesa, mulino, magazzini e ospizio. Tutto era amministrativamente sotto la protezione della Chiesa.

Il papa aveva su di esse un vero potere temporale che allora non esercitava nella città di Roma, tanto che vi esercitava i due più significativi elementi di sovranità: batteva moneta e levava milizie.

I residenti nelle domusculte erano detti homines Sancti Petri o familiares ecclesiae e le milizie da loro costituite formavano quelle masnadae Sancti Petri che furono chiamate talvolta a combattere, ma che erano anche obbligate a prestare servizi personali come nella fabbrica delle mura leonine.

Le domusculte secondo il Tomassetti avrebbero prodotto effetti economici straordinari e risollevato le sorti della Campagna Romana se guerre civili e invasioni non ne avessero decretato la decadenza e quindi la trasformazione in quelle tenute dell’agro romano che storicamente meglio conosciamo. Di molte domosculte si perse addirittura la memoria e se ne conosce nome ed ubicazione soltanto di alcune.

Pensare che queste militiae restano nella storia soltanto per le due piccole lapidi che vedremo è forse riduttivo e non è azzardato supporre che ognuna delle domusculte, esistenti nel territorio romano, fornisse una certa quantità di mano d’opera, ma non ne è restata traccia e sembra ormai perduta la speranza di trovarne ancora.

La prova dell’intervento di queste milizie ci viene da due illuminanti iscrizioni ora murate nella parte esterna del fornice aperto nelle mura verso via di Porta Angelica al disotto di una grande iscrizione di Urbano VIII nella quale si narra appunto del ritrovamento e della collocazione in quel luogo.

In quella posta più in alto, di forma rettangolare, è scritto, con abbreviazioni, ma con caratteri molto chiari:

+temporibus: dom: leonis q: p.p. hanc pagine et du

as turres saltisine militia construxit+

(Ai tempi del signore Leone IV papa la milizia Saltisina costruì due torri e questa cortina che le collega)

al disotto un’altra piccola lapide reca:

+civitas

leoniana

quella più in basso è invece quadrata, e con le stesse caratteristiche della prima ricorda che:

+hanc turrem

et pagine una • f

acta. a militiae

capracorum •

tem • dom • leonis

quar • p p • ego agatho

(Questa torre e una cortina costruì la milizia Capracorum al tempo del Signore Leone IV papa io Agato)

Il Tomassetti ha individuato soltanto la Domusculta Capracorum sulla via Cassia che oggi corrisponde al territorio tra Mazzano e Nepi, mentre, più recentemente, la domusculta Saltisina sarebbe stata localizzata sulla via Ardeatina.

La fortificazione iniziata - come abbiamo visto - nell’848, nell’852 era terminata con soddisfazione e sollievo di tutti, il cronista Anastasio Bibliotecario narra con dovizia di particolari la cerimonia che con la partecipazione di Leone IV, si svolse per l’occasione il 27 giugno << … terminati ed esauriti i lavori e le opere della nuova città [Città Leoniana] … il papa sopra ogni dire beatissimo e tra tutti sempre il più lodevole, affinchè la predetta Città … rimanesse sempre stabile e potere resistere fortificata, comandò con grande devozione di animo e grande letizia di cuore, che insieme a lui tutti i vescovi e sacerdoti abitanti la città, tutti quanti i chierici della Santa Chiesa Apostolica Romana, dopo aver cantato le litanie ed i salmi percorressero a piedi scalzi il circuito dei muri con il capo coperto di cenere, cantando laudi ed inni spirituali, e tra le altre cose ordinò che l’aspersione dell’acqua benedetta percorrendo la cinta dei muri, fosse fatta dai vescovi e dai cardinali, durante il sacro esercizio delle orazioni, … e questi eseguirono umilmente come da lui fu comandato … >>, il Papa particolarmente commosso recitò una diversa preghiera per ognuna delle tre porte.

La lunga cinta muraria aveva infatti soltanto tre passaggi: una porta e due più piccole dette appunto posterule. La più vicina al Castello detta Posterula Sancti Angeli, dopo circa ottocento metri, alle falde della collina vaticana e vicina alla Basilica si apriva la Porta S. Pellegrino detta anche Viridaria, la più importante nella quale transitavano i pellegrini provenienti dal nord con le vie Cassia e Flaminia. Nella parte opposta, vicino al Tevere, si apriva la Posterula Saxonum detta anche Settignana e poi S. Spirito. Sopra ogni porta erano poste delle iscrizioni laudative dell’opera e di chi l’aveva realizzata: attraverso le sillogi epigrafiche si conosce il testo di quelle della Posterula S. Angeli e di quella di S. Pellegrino e probabilmente, in occasione di recenti restauri, è stato trovato l’originale di quella della Posterula Saxonum, ma talmente frammentata da non poterne riconoscere il testo.

Come abbiamo detto non si conosce il nome né del progettista, né del direttore dei lavori: qualcuno li ha attribuiti a quell’Agato che compare sulla lapide della Militia Capracorum, abbiamo forti dubbi su questa attribuzione, almeno fino a prova contraria. Sembra infatti più il capo del gruppo dei militi ricordati nella lapide, piuttosto che il responsabile di tutti i lavori del muro leonino. Comunque, in mancanza di altri nomi, rendiamo onore a questo unico personaggio conosciuto, esprimendo a lui il grato ricordo per tutti coloro che conclusero la più importante costruzione medievale che ancora rimane alla nostra ammirazione.

Finora abbiamo parlato del muro fortificato a difesa della Civitas Leoniana, ma il tema principale del nostro discorso voleva essere il Corridore o Passetto che su di esso fu costruito per ragioni d’ordine pratico, e vedremo anche la sua decadenza conseguente alla costruzione del bastione esterno che unirà le mura vaticane “alli Spinelli”, nei pressi dell’attuale piazza Risorgimento, fino a Castel Sant’Angelo e la nascita della Civitas Pia che esiste tuttora quasi intatta almeno nel suo tessuto urbanistico. Di tutto l’insieme della cinta leonina il tratto settentrionale, cioè quello che va dal Castello al Palazzo Vaticano, è quasi tutto conservato proprio perché sormontato dal Corridore, mentre del resto del muro si trovano soltanto alcuni tratti isolati che hanno però permesso di ricostruirne il perimetro.

Per molti anni il Muro Leonino rimase nello stato primitivo, conservando la funzione difensiva per cui era nato, ebbe soltanto delle normali manutenzioni che non lasciarono tracce di qualche importanza. Nicolò III (1277-1280) della famiglia Orsini, che aveva intenzione di trasferire la sede papale dal Laterano al Vaticano, iniziò la realizzazione di un corridoio sovrastante le mura leonine per unire la nuova sede vaticana al Castello. Il cronista conosciuto come Anonimo Magliabecchiano, nei primi del Quattrocento, notava nel Tractatus de rebus antiquis et situ urbis Romae che Nicolò III << … decursus fecit a palatio suo usque ad Castrum … >>.

A tale decisione contribuì anche la sua volontà di riunire la sede pontificia a quella della famiglia Orsini che dal Duecento possedeva il Castello dominando così il transito verso il Vaticano e viceversa, poiché la potente casata era saldamente attestata anche dall’altra parte di Ponte Sant’Angelo con i suoi possedimenti nei Rioni Ponte e Parione dominati dal complesso di Monte Giordano.

Il corridoio che si realizzava chiudendo con murature gli archi che nel vecchio baluardo leonino erano aperti verso l’interno, dovette essere interrotto nel 1280 alla morte del Papa, anche se i lavori erano giunti a buon punto.

Il primo intervento funzionale che modificò la fisionomia della cinta leonina si ebbe intorno al 1300, durante - o in preparazione - del primo Giubileo, quando Bonifacio VIII (1294-1303) fece aprire una nuova posterula presso la chiesa di S. Maria in Traspontina per agevolare e disciplinare il traffico dei pellegrini che entravano da Porta S. Pellegrino e uscivano dalla nuova posterula.

Durante il pontificato di Urbano VI (1378-1389), nel secondo anno del suo pontificato, il Castello fu tolto agli Orsini e i loro nemici distrussero quanto era stato fatto da Nicolò III un secolo prima, così almeno in parte, il Muro Leonino tornò alla sua funzione di semplice fortezza. Queste notizie sono tenui e contrastanti, tenendo conto anche del tempo trascorso, per cui sarà difficile stabilire ciò che avvenne veramente, anche se alcuni autori hanno cercato di dare spiegazioni e chiarimenti che, nel complesso, si lasciano dietro sempre dei dubbi, come già abbiamo constatato per le mura iniziate da Leone III, distrutte a furor di popolo e rifatte poi da Leone IV.

Quanta parte delle mura fosse già stata ridotta a “Corridore” o passaggio coperto non lo sappiamo e sarà difficile poterlo determinare, ci conviene perciò tornare ad esaminare i pareri degli storici, Valentini-Zucchetti ne danno per certa la costruzione all’antipapa Giovanni XXIII nel 1411, mentre l’Adinolfi sostiene che << … l’idea di congiungere per via di esso il palazzo apostolico con la mole Adriana nacque nella mente del primo restauratore di lei che fu Bonifacio IX (1389-1404) dopo il consiglio datogli da Natale e Petruccio Sacco: “se vuoi essere padrone di Roma acconcia Castello”>>. Come vedremo l’affermazione dei due studiosi e quella dell’Adinolfi non contrastano, anzi sono di chiarimento l’una all’altra.

Non vogliamo dubitare della buona fede dei due suggeritori, né dell’ingenuità di papa Tomacelli, ma quel concetto lo aveva già scoperto otto secoli prima Totila che “per tenere Roma” non solo occupò saldamente l’antico sepolcro, ma vi unì il campo trincerato di cui abbiamo parlato.

Bonifacio IX restaurò Castello e non è azzardato supporre che tra i suoi programmi vi fosse anche quello del “Corridore” la cui utilità in caso di pericolo era ben evidente. Si trattava però di lavori lunghi e costosi da eseguire su una base pluricentenaria con grandi necessità di rinforzi e restauri. Nella cronaca edilizia del Muro Leonino sono assenti i successori di Bonifacio, Innocenzo VII (1404-1406), Gregorio XII (1406-1415) che visse un travagliato pontificato tra deposizioni e rinuncia, morì infatti nel 1417 semplice cardinale. Anche la serie di antipapi che si susseguirono tra il 1394 e il 1410 non ebbe certamente preoccupazioni per il “Corridore”. Uno solo, Alessandro V (1409-1410) fu costretto dagli eventi ad intervenire nella ricostruzione di una parte del muro crollata, qualcuno ha addebitato tale incidente agli affrettati interventi di Nicolò III. Questi lavori sono, secondo le approfondite analisi di Adriano Prandi, riconoscibili nei grandi archi di sostegno che dopo i restauri da lui eseguiti sono visibili lungo il tratto di muro che corre tra i fornici di via di Porta Angelica e quelli di via del Mascherino.

Fu invece solerte esecutore dei lavori Baldassarre Cossa, un altro antipapa che prese il nome di Giovanni XXIII (1410-1415), la cui opera risulta ripetutamente nel Diario di Antonio di Pietro dello Schiavo che così annuncia l’8 giugno del 1411 l’inizio dei lavori diretti da Antonio da Todi <<… die lune viii dicti mensis [1411], dominus noster papa Iohannes xxiii fecit incipere per magistrum Antonium de Tuderto cum suis sotiis facere murare muros civitatis Leoniane, videlicet pro annarenei, incipiendo de palatio Apostolico et seguitando versum Castrum Sancti Angeli, etcetera >>. Il diarista torna ancora sull’argomento il 15 e il 16 dello stesso mese e indica questo nuovo passaggio come annarenei, mentre altri lo definiscono corritorium, deambulatorium e più semplicemente murum. Mentre corritorium, deambulatorium e murum sono di facile comprensione, anche se la denominazione più comune è rimasta Corridore a cui, molto più tardi si è aggiunto passetto, rimasti, del resto, tuttora in uso, l’altro termine annarenei - peraltro usato soltanto da Antonio di Pietro e dopo da qualche scrittore moderno in cerca di facile erudizione - va riferito più alla forma del passaggio dal latino andron che è appunto passaggio, andito, androne, corridoio tra due mura, e non è da escludere il riferimento al termine militare androne, passaggio che mette in comunicazione il piano della fortezza con il fossato.

Ulteriori interventi alle mura leonine e al Corridore sono del tempo di Alessandro vi (1492-1503) pontificato che vide eventi piuttosto turbolenti per cui, probabilmente si unirono due esigenze: la necessità di restauri alla vecchia struttura e la necessità della difesa dell’area vaticana. Al Corridore venne aggiunto un coronamento merlato che permetteva il transito all’aperto con relativa sicurezza ed una migliore difesa verso l’esterno. Non dimentichiamo che, con il tempo, l’armamento è passato dall’arco, alla balestra e quindi alle armi da fuoco anche se di modesta precisione e breve gittata.

L’intervento più importante, anche dal punto di vista artistico, fu la sistemazione della Porta S. Pellegrino per la quale il Papa si avvalse dell’opera di Antonio da Sangallo il Vecchio.Verso l’esterno alla porta sono affiancate due torri a pianta quadrata poste tecnicamente in modo da impedire l’approccio ai battenti del portale, mentre la parte interna - quella che tuttora vediamo dietro il colonnato di S. Pietro - è più semplice anche se rispondente alla tecnica difensiva dell’epoca.

All’esterno, sotto un artistico stemma del papa una grande lapide riporta il testo:

alexander vi pont. max.

calisti iii pont. max. nepos

natione hispanus patria

valentinus gente borgia

portas et propugnacula

a vaticano ad hadriani

molem vetustate confe

cta tutiora restituit

an salutis mcccclxxxxii

 

(Alessandro VI papa, nipote di Callisto III papa, spagnolo di Valencia rese più sicure le porte e le mura tra il Vaticano e la Mole Adriana. Nell’anno della salute 1492)

All’interno lo stemma e la lapide sono molto più piccoli:

alexander

p.p. vi anno

mcccclxxxxii

Sulla data di queste lapidi sorge qualche dubbio poiché Alessandro VI era stato eletto l’11 agosto 1492 e incoronato il 26 dello stesso mese, quindi alla fine dell’anno 1492 pontificava soltanto da quattro mesi. Sembra quasi impossibile che in così breve periodo abbia potuto restaurare tutto il manufatto “dal Vaticano alla Mole Adriana” compromesso dalla vecchiaia, sistemata la porta e costruito le torri esterne: si potrebbero proporre diverse ipotesi, ma in questa sede basta aver segnalato quella che sembra una anomalia, del resto già notata dal Lanciani, ma che non ci risulta aver avuto successivi approfondimenti.

Era terminato da poco il lavoro di sistemazione programmato, quando un evento inatteso costrinse a nuove opere. Narrano le cronache che il 2 maggio 1493 cadde parte del muro fra Castel Sant’Angelo e il Palazzo Apostolico, di fronte alla casa del cardinale Aleriense dalla torre verso il castello per circa 45 m. di lunghezza, si pensò che la ragione di questo rovina fosse la vetustà del muro e il maggior peso per le nuove murature costruitevi sopra. Il Papa provvide a farlo subito riedificare.

L’opera di Alessandro VI per la sistemazione ed il rafforzamento delle mura leonine con il loro Corridore e del Castello continuò senza sosta. Dopo la ricostruzione del muro crollato abbiamo, nel 1494, notizia di altri lavori: il Corridore fu pavimentato con l’opera di Maestro Antonio de Frosino e di Maestro Antonio fiorentino; il Maestro carpentiere Alessandro Cerretano da Tivoli lavora al Castello, in sostanza tutto l’insieme fortificato e il palazzo papale vaticano ebbero notevoli miglioramenti, basti pensare alla solenne Torre Borgia che tuttora domina, con la sua poderosa impostazione stilistica, il cortile del Belvedere.

L’uso del Corridore entrò presto nella quotidianità, si apprende, da una notizia del Müntz, che nel dicembre 1494 due prigionieri politici furono condotti dal Vaticano a Castello per murum sive deambulatorium. Il 7 gennaio 1495 è la volta di Alessandro VI che lo usa per rifugiarsi in Castello insieme a 6 cardinali. Domenica 13 novembre 1503, pochi giorni dopo l’elezione di Giulio II (1503-1513), vi fu un intenso traffico tra il Castello e il Vaticano e viceversa: il cardinale di S. Giorgio andò dal Papa, dopo di che ivit per curritorium a Castel Sant’Angelo. Marco vescovo di Senigallia si recò dal Papa facendo il percorso inverso e tornando di nuovo a Castello, dopo il suo passaggio vi transitarono tre bombarde da sostituire ad altre. Il 15 dello stesso mese, dopo il Vespro fu Giulio II ad andare in Castello attraverso il Corridore e, nel contempo si ha notizia che vi furono portate ancora molte bombarde.

Nel 1521, 1524 e 1533 ci pervengono notizie (Lanciani) che suscitano dubbi: sono atti notarili riguardanti acquisti e vendite di case e terreni che sembrano molto vicini al Corridore, o addirittura addossate ad esso, se il dubbio è fondato significa che l’antico scopo difensivo del Muro Leonino se non era dimenticato quanto meno era attenuato, tanto da permettere costruzioni così vicine. Nel 1542 il Corridore è fiancheggiato dalla via di S. Michele che prende ovviamente il nome dalla chiesa di S. Michele Arcangelo che non esisteva più perchè demolita durante i lavori di sistemazione della zona del 1497; quella che conosciamo sarà costruita nel 1564 con le sue pertinenze addossate al Corridore quando questo avrà già perduto il suo impegno difensivo.

Abbiamo visto che il Corridore aveva già estrinsecato la sua funzione di unione tra il Palazzo e il Castello, ma se fino ad allora era stata più una utilità che una necessità, questa si presentò a Clemente VII quando, nel 1526, per il pericolo rappresentato dalle milizie di Pompeo Colonna e di Ugo Moncada andò a mettersi al sicuro nella rocca.

Ma l’episodio storico più clamoroso riguardante il Corridore, è quello del 6 maggio 1527 quando di nuovo Clemente VII lo attraversò a passo svelto e per di più coperto dal mantello violaceo di Paolo Giovio che con questo espediente voleva coprire l’abito bianco del pontefice per evitare che fosse facile bersaglio ai colpi di archibugio dei nemici già arrivati sotto il muro leonino. Con il Papa fuggì parte della corte presa da giustificato terrore se - come dice Gregorovius - la guerra allora <<significava non soltanto facoltà di saccheggiare le città conquistate, ma eziandio potestà di considerare tutto il popolo come carne da macello …>>. Quando furono finalmente sbarrate le porte di Castello vi si erano rifugiate ormai quasi tremila persone.

Quando le truppe imperiali, nonostante la perdita del loro condottiero il Contestabile di Borbone, riuscirono a superare le mura nella zona dell’attuale Porta Santo Spirito dilagarono nel Borgo e quindi nella Città.

Raramente si è valutato il valoroso sforzo dei romani per arginare quella marea di lanzichenecchi luterani non più feroci degli italiani e degli spagnoli che facevano parte delle truppe di Carlo V, la colpa della disfatta fu attribuita ai “capi”, ma i morti in combattimento furono migliaia. Sempre seguendo il Gregorovius <<Le genti de’ Rioni Ponte e Parione, sotto gli ordini di Camillo Orsini, difendevano quel tratto di mura, e il vecchio cardinale Pucci era con loro a incoraggiarli: si batterono disperatamente, ma furono uccisi e dispersi. Di mille uomini del quartiere Parione rimasero in piedi circa cento; la compagnia di Lucantonio cadde tutta, tranne dieci soli; il capitano Giulio di Ferrara fu ammazzato con tutti i suoi>>. L’episodio della salvezza del Papa attraverso il Corridore è ben vivo nella memoria, ma quello che più è rimasto nella fantasia popolare e nelle fastose commemorazioni è il ricordo del sacrificio degli Svizzeri che perirono quasi tutti combattendo presso l’obelisco Vaticano, per permettere a Clemente VII di salvarsi.

Con l’odierna topografia del Vaticano sembrerebbe che gli Svizzeri abbiano difeso l’ingresso al Palazzo Apostolico, oggi prossimo all’obelisco, ma allora l’obelisco era molto più lontano, cioè vicino al Cimitero Teutonico e all’attuale sagrestia, quindi gli Svizzeri contribuirono a salvare Clemente VII quanto tutti gli altri morti combattendo. Il Papa si era intrattenuto a pregare nella sua cappella (e non in S. Pietro come è affermato da alcuni) quando udì le grida dei vincitori si convinse a mettersi in salvo ed è da lì che raggiunse il Corridore, direttamente dal Palazzo, per mezzo della torre scalaria che, in effetti è tuttora sforacchiata dalle pallottole dei Lanzichenecchi e compagni. In ogni caso onore ai mercenari Svizzeri che compirono il loro dovere, ma ricordiamoci anche quei Romani che si sacrificarono nel vano tentativo di difendere la loro Città.

In quell’occasione il muro e il Corridore non subirono danni rilevanti, salvo, come abbiamo detto, i colpi di archibugio sparati verso le merlature con la speranza di colpire coloro che fuggivano verso Castello. Il Corridore continuerà ancora per lungo tempo la sua funzione, mentre ci stiamo rapidamente avvicinando al tramonto dello scopo difensivo del Muro Leoniano che resterà soltanto come sostegno del Corridore.

La tragedia del 1527 aveva lasciato una indelebile traccia sui romani e la stessa autorità pontificia cominciava a preoccuparsi di dotare Roma di una migliore difesa, tanto più che si rinnovava la minaccia dei Turchi; non è questa la sede per esaminare la complessa vicenda, ci limiteremo perciò a seguire quello che ci riguarda più da vicino rispetto al Corridore.

Per la progettazione delle mura vaticane furono chiamati i più provetti tecnici e architetti di fama, a Michelangelo fu affidato il baluardo del Belvedere e nel contempo il compito di rendere più sicuri Borgo e Castello. Tra il 1547 e il 1548 furono ammodernati e ampliati i bastioni di Castello, ma per quanto riguarda il Muro Leoniano, Michelangelo già il 15 febbraio 1545 aveva scritto in una lettera <<Io dalli Spinelli a Castello non farei altro che un fosso: perché il Corridore basta quando sia acconciato bene>>. La sua idea circa il modo di acconciare il Corridore consisteva in una robusta foderatura di mattoni verso l’esterno, lo scavo di un considerevole fosso e fare in modo che tutta la zona potesse essere efficacemente battuta dalle artiglierie di Castello e da quelle del baluardo delle Mura Vaticane detto “delli Spinelli”.

Nel 1548 il baluardo vaticano era completato e fu compensato il marmoraro che aveva scolpito il grande stemma Farnese che tuttora orna la punta più alta del bastione, così attesta la registrazione del pagamento <<29 settembre 1548 - per un’arma grande di N. S. che lui affatto di travertino per mettere al pontone del bastione delli Spinelli sotto Belvedere …>>.

Da alcuni episodi che conosciamo attraverso le documentazioni si può arguire che la vecchia muraglia leonina non fosse più tanto resistente, aveva spesso degli inconvenienti che richiedevano immediati restauri, quasi sempre occasionali, rivolti al solo fine di riparare il danno. Il 28 luglio 1556 e il successivo 3 settembre fu pagato un muratore per “rimurare la buscia nel corridore”, si trattava evidentemente di un crollo, ma non si sa se nei solai o nelle pareti.

Un danno, molto più grave, fu quello del 17 settembre 1557, mentre il papa Paolo IV stava andando in Castello dal Vaticano crollò la parte del Corridore tra castello e la chiesa di Sant’Angelo, un tratto piuttosto lungo che scavalcava anche il largo fossato; nell’incidente morirono parecchie persone tra cui alcune annegate. La struttura era stata danneggiata dall’alluvione del Tevere del 14 e 15 settembre.

Altri lavori di fortificazione provvisori furono eseguiti in seguito, ma la vera cinta bastionata “dalli Spinelli a Castello” uscì dalla fase progettuale soltanto dopo che la flotta cristiana fu sconfitta dai Turchi a Gerba nel 1560 e Pio IV (1559-1565) si convinse della sua necessità. Nel 1562 affidò i lavori all’architetto militare cortonese Francesco Laparelli coadiuvato da un gruppo di esperti, per la costruzione del nuovo bastione costituito da una robusta muratura che, in linea retta chiudeva il percorso del quale da anni si stavano progettando mezzi di difesa più o meno efficaci. Vi correva davanti un fosso attraversato da due ponti in corrispondenza degli unici due varchi: Porta Angelica vicino al bastione del Belvedere e Porta Castello vicino alle difese del Castello stesso.

Il nuovo muro, costruito da Pio IV, era formato da due segmenti diritti che si incontravano al centro in una struttura idonea ad accogliere le artiglierie, e nel complesso di altezza relativamente modesta per non intralciare il tiro di quelle di castello e di Belvedere. Il bastione correva, più o meno, lungo il percorso dell’attuale via Vitelleschi e fu completamente demolito nel 1890. A suo ricordo resta il toponimo via dei Bastioni; Bastioni era del resto chiamata quella zona dai vecchi abitanti di Borgo anche dopo lo sviluppo edilizio e la perdita della memoria visiva di quelle antiche mura che, in realtà, nonostante le innumerevoli spiegazioni, non si è mai capito perché siano state demolite, salvo che non vi siano state ragioni politiche piuttosto che urbanistiche.

Finisce così lo scopo difensivo del Muro Leonino che, da questo momento in poi rimase soltanto a sostenere il Corridore. Tra il vecchio muro e il nuovo bastione costruito a circa trecento metri di distanza, rimane una zona di terreno vagamente pianeggiante, che andava livellata e preparata per accogliere un nucleo abitato.

Questa zona, compresa tra il vecchio e il nuovo muro, nasce ufficialmente come Civitas Pia dal nome del Papa Pio IV (Medici di Milano) con la Bolla del 23 agosto 1565 con la quale concedeva ampie facoltà, specialmente fiscali, a chi acquistava terreni e costruiva case di abitazione. A tale scopo il terreno, come deciso nella bolla stessa, fu bonificato e portato allo stesso livello tra le due zone al di qua e al di là del muro leonino, ciò per evitare le inondazioni e per portare il terreno della nuova città, con una lieve pendenza, al livello della entrata del Palazzo Apostolico, attraverso il portale del Belvedere che si trova esattamente a chiusura prospettica della progettata strada centrale, oggi Borgo Pio.

La Bolla prevedeva anche fognature, rifornimento idrico, una scuola e - come abbiamo visto - agevolazioni fiscali estese anche alle prostitute che avessero investito in immobili il danaro sia pure guadagnato non onestamente; di ciò che era costruito tutti potevano disporre liberamente in vita e per testamento.

Le conseguenze immediate per il vecchio Muro Leonino “allo scopo di procacciare un comodo allacciamento” tra la Civitas Leoniana e la Civitas Pia furono l’apertura di sette fornici ad arco: cinque uguali tra loro con l’arco a tutto sesto, due con arco a sesto leggermente ribassato.

Per indicare le aperture praticate nel muro leonino, oltre le porte vere e proprie, abbiamo sempre usato la parola “fornice” che nei dizionari quando la parola è usata come termine architettonico è definita <<vano o apertura ad arco praticata in un’opera muraria di notevole spessore e destinata al transito pubblico>>, in senso generico sta a significare anche arcata, porticato, passaggio sotterraneo. Questa precisazione perché alcuni autori chiamano queste aperture semplicemente “archi” con termine troppo generico, mentre altri le definiscono addirittura “porte”, quanto mai imprecisamente non avendo nessuna delle caratteristiche delle porte, mancando qualunque mezzo adatto a chiuderle.

Dalla ampia documentazione che si conosce si ha la certezza che la bolla del 1565, rispetto alla nascita della Civitas Pia, sia il documento di conferma di un’idea nata già da tempo perchè i fornici del Muro Leonino erano già aperti nel 1563 e già ornati degli stemmi di Pio IV che tuttora ammiriamo all’interno e all’esterno nelle chiavi di volta degli archi dei fornici. In quell’anno vi lavorarono - tanto per ricordare qualcuno di quegli artigiani - maestro Giovanni Bergamasco e maestro Pietro da Vachal come muratori; le parti in pietra e gli stemmi furono lavorati dagli scalpellini maestro Hieronimo da Como e Francesco suo figlio e maestro Ottaviano Fiorentino; tra i carpentieri ricordiamo i maestri Vincentio e Rocco.

I sette fornici furono aperti in corrispondenza delle vie che attualmente portano il nome di Porta Angelica, Mascherino, Farinone, Palline, Orfeo, Campanile e Porta Castello. Come abbiamo notato finisce definitivamente la vita del Muro Leonino come fortezza e resta soltanto a sostegno del Corridore, ma con la creazione della Civitas Pia acquista una importante funzione urbanistica che ancor oggi divide Borgo in due parti, nettamente distinte nella struttura e nella funzione.

La parte esterna al Muro Leonino ha l’aspetto di una piccola città con edifici adibiti quasi esclusivamente ad abitazioni e botteghe, ha l’aria tranquilla e serena di un “borgo” che vive a sé, quasi isolato dalla Città col suo corso centrale Borgo Pio, intersecato da vicoli e vie che lo legano agli altri Borghi: Vittorio e Angelico. Quest’ultimo fa da confine, via Stefano Porcari, piazza Amerigo Capponi e via Giovanni Vitelleschi (tutti nomi rigorosamente “anticlericali”) che seguono il tracciato del vecchio bastione di Pio IV, danno la sensazione di essere state edificate per fare da quinta e segnare con indiscutibile evidenza questo confine.

La parte interna del Muro Leonino che confina col Tevere, è dedicata quasi esclusivamente, a uffici, luoghi di riunione, chiese, scuole, conventi conserva ancora molti ricordi delle demolizioni della “Spina” e delle adiacenze, edifici ricostruiti con freddo tecnicismo ed ha l’aspetto di una vecchia signora che, nonostante gli sforzi, non riesce a nascondere i suoi “inestetismi”, mentre riesce perfettamente e con naturalezza a creare intorno a se un’atmosfera di serena accoglienza per mostrare, con orgogliosa degnazione, i suoi gioielli: la Basilica e il Castello.

Quella che fu demolita era la “Spina dei Borghi” - intendendo Borgo Nuovo e Borgo Vecchio - ma la vera dorsale del XIV Rione è quel muro antico, strategico segno figlio, dei secoli, che divide ed unisce la Civitas Leoniana e la Civitas Pia nate per scopi diversi in tempi lontanissimi tra loro e, ormai, indissolubilmente legate da uno stesso destino urbanistico. Nella speranza che in avvenire non vi siano più interventi né di picconi, né di cazzuole, ma solo il leggero e sapiente tocco del restauratore.

Abbiamo visto la funzione del Muro Leonino ormai diventato “Corridore” e la sua storia prosegue, cammina nel tempo e lentamente raggiunge i nostri tempi. In un documento del 1567, poco dopo l’apertura dei fornici, si appaltano a Jacopo da Castello lavori di restauro e questi interventi proseguono di tempo in tempo, ma nulla si modifica nella struttura fino al 1599 quando Clemente VIII (1592-1605) ne apre altri tre che risultano poi totalmente inutili.

Uno dei più gravi inconvenienti che affliggeva Roma erano le inondazioni del Tevere che provocavano gravi danni e disagi alla popolazione. Ad ogni nuova piena si ripresentava la necessità, come per quella disastrosa del 1557, di diminuire l’impeto delle acque evitando un’ansa del Tevere con un “drizzagno” che dai piedi di Monte Mario avrebbe portato la corrente a reinnestarsi nell’alveo naturale tra Castel Sant’Angelo e l’Ospedale di Santo Spirito perciò il fosso da scavare avrebbe dovuto attraversare la Città Leoniana, ma obiezioni di varia natura fecero accantonare il progetto.

La tragica piena del 1598 - della quale vediamo il ricordo nelle lapidine infisse nelle pareti del centro di Roma - fece riesumare il progetto e si iniziarono i lavori, ma il punto più difficile sarebbe stato l’attraversamento di Borgo e lo sbocco nell’alveo naturale vicino all’Ospedale di Santo Spirito. Pressato dalle ripercussioni del grave disastro Clemente VIII nel 1599 fece aprire i tre varchi nel Muro Leonino sotto i quali sarebbe dovuto passare l’alveo artificiale della piena del Tevere. Questo complesso e delicato lavoro rimase l’unica opera del ventilato progetto che non si realizzò mai.

Su queste aperture si è molto discusso in questi ultimi anni, ma con pareri discordi: in sostanza si potrebbe dire che i varchi rimasero aperti e presto sorsero ai due lati edifici di vario genere che furono usati come passaggi, come cortili e in parte vennero addirittura occupati da costruzioni che tuttora esistono. Soltanto dopo la demolizione delle case ci Borgo Sant’Angelo i tre archi furono murati completamente per essere poi in parte riaperti negli anni Ottanta del secolo scorso e ora uno è ancora completamente murato, un altro lo è a metà e il terzo è completamente aperto.

Proseguendo la storia del Corridore nel tempo, troviamo un documento del 1608 che testimonia la costruzione di un <<…corridore novo di legno, che serve per andare dal palazzo dell’Eccellentissimo Signore Giovan Battista Borghese al Corridore di Castel Sant’Angelo>>. Questo palazzo - ora Torlonia - era allora abitato da Giovanni Battista Borghese e la passerella era utile per tenersi facilmemnte in contatto con suo fratello Paolo V. Non si hanno successivamente altre notizie del manufatto che, verosimilmente, fu eliminato dopo la morte di Giovanni Battista avvenuta l’anno dopo.

Altro pontefice che prese cura del Corridore fu Urbano VIII (1623-1644) il quale dopo avere eseguito importanti lavori in Castello tra il 1627 e il 1630, fece restaurare anche il Corridore e, per maggior sicurezza, fece demolire gli edifici che, col tempo, si erano accostati troppo all’antico manufatto. L’opera più importante fu la copertura della parte superiore merlata del Corridore con un tetto a doppio spiovente, opera che alla data del 22 ottobre 1630 risulta eseguita da Nicolò Scala secondo l’annotazione del manoscritto vaticano del Nicoletti riportato da Cesare D’Onofrio.

A conclusione di questo lavoro il papa fece apporre nella parte interna del fornice di via di Porta Angelica questa iscrizione al disotto del suo stemma:

Urbanus viii Pont. Max.

deductum in arce latenti fornice

transitum

a Vaticano ruinam minantem

constabilivit tectoque munivit

anno mdcxxx pont. viii

In occasione di questi lavori sotto l’iscrizione posta all’esterno del fornice di via di Porta Angelica furono collocate le iscrizioni riguardanti le milizie delle domusculte che già conosciamo. Proprio durante i lavori di Urbano fu rinvenuta quella della milizia Saltisina, mentre quella della milizia Capracorum era stata ritrovata da F. M. Torrigio, l’11 gennaio 1633, nel pavimento della chiesa di S. Giacomo in Settignano. Stemma, iscrizione e lapidine inaugurate il 29 dicembre 1634, riportiamo qui l’iscrizione di Urbano VIII:

Urbanus viii Pont. Max.

geminas hasce inscriptiones

quae olim a S. Leone iv

in Leonianae Urbis munimentis

positae fuerant

ex obscuri oribus locis

huc transtulit

anno salutis mdcxxxiv

pont. xii

La funzione del corridoio, come collegamento tra il Palazzo e il Castello, comincia a diminuire sia perché i Papi, con il tempo, preferiranno sempre più la residenza del Quirinale, sia perché il Castello acquista, anche se lentamente, la fisionomia di struttura militare e quindi sempre meno accogliente. Anche la manutenzione del manufatto non è più curata come un tempo e gli edifici vi si addossano con maggiore intensità dai due lati, perché, dimenticata ormai la sua funzione di fortezza, in pratica non vi è più alcuna ragione per distinguere l’interno dall’esterno. La copertura di Urbano VIII, ormai inutile, diventa insicura e parzialmente crolla o è depredata di travi e tegole.

I fornici non hanno altro che la funzione di transito che prima degli ultimi restauri era ben evidente dai colpi inferti alla muratura dai mozzi metallici delle ruote dei carri. La porta S. Pellegrino fu murata quando venne aperta la Porta Angelica del bastione di Pio IV, lasciandovi soltanto un piccolissimo passaggio utile forse alla adiacente caserma della Guardia Svizzera; la Porta Castello divenne un fornice come gli altri.

La Porta S. Pellegrino fu riaperta e restaurata nel 1827, dall’architetto Raffaele Folo, quando Leone XII volle migliorare la condizione del vecchio alloggiamento degli Svizzeri, così fu inglobata nella nuova struttura a far da ingresso alla caserma e da fondale al suo cortile.

Il 20 settembre 1870, le truppe italiane entrarono in Roma e occuparono Castel Sant’Angelo il 29 settembre. Dopo le formali consegne e l’uscita del presidio pontificio vi rimase un battaglione distaccato dal reggimento che aveva preso quartiere nella caserma Serristori già caserma degli Zuavi Pontifici, ma la sorte del Corridore rimase in sospeso e fu sbarrato con un muro dalla parte di Castello e dalla parte vaticana, divenendo così una specie di terra di nessuno.

L’ultimo segno di vita il Corridore lo dette durante una delle infinite inondazioni di Roma e per la cronaca di questo piccolo curioso evento lasciamo la parola a Giuseppe Manfroni che come Commissario di Pubblica Sicurezza di Borgo aveva anche il compito - non ufficiale - di tenere rapporti informali con persone del Vaticano. Narra il Manfroni che in seguito allo straripamento del Tevere del 28 dicembre 1870 << Era rimasto isolato e chiuso in Castel Sant’Angelo, tutto circondato dalle acque altissime, un battaglione di soldati, il quale non aveva altro mezzo di uscita o di vettovagliamento, che il viadotto coperto, costruito da antichi tempi per mettere in comunicazione il Castello col Vaticano. Il giorno in cui le nostre milizie erano entrate in Castello era stata murata l’una e l’altra estremità del viadotto stesso, la cui proprietà era incerto se spettasse al nostro Governo, o al Vaticano. Il colonnello del reggimento stanziato a Serristori si rivolse a me, perchè pregassi quei signori del Vaticano di abbattere dalla loro parte il muro per permettere ai soldati chiusi in Castello di uscire e di unirsi agli altri nell’opera umanitaria di aiutare la popolazione civile.

Chiesi un colloquio a monsignor Nembrod, che venne subito premurosamente in piazza, e gli esposi i desideri dell’autorità militare. Prevedevo già la risposta, che cioè per uscire dal viadotto i soldati avrebbero dovuto entrare in una parte del Vaticano; ma speravo che, dato il momento gravissimo, a certe piccolezze non si sarebbe dato un gran peso, tanto più che si trattava di soccorrere anche molti addetti al Vaticano, dimoranti in Borgo. Il monsignore disse, che, se fosse dipeso da lui avrebbe chiuso ambedue gli occhi; ma che la cosa dipendeva, nientemeno, dal cardinale [Segretario] di Stato, col quale si recò subito a conferire. La risposta che io ebbi dopo mezz’ora fu diplomatica: senza entrare in questione di tuo e di mio, si fece sapere che per abbattere la muratura sarebbero occorsi parecchi giorni di lavoro (!!!) e che perciò il passaggio sarebbe stato aperto troppo tardi.

A quattr’occhi, il monsignore mi disse che i soldati avrebbero potuto discendere dal viadotto, a mezzo di scale, prima che questo toccasse i palazzi vaticani. A questa soluzione avevamo già pensato anche noi: ma volevamo evitare fin l’ombra della violenza. Costretti dalla repulsa del Cardinale, ricorremmo alle scale dei pompieri, e i soldati uscirono nei pressi del vicolo del Mascherino, mettendosi subito a lavorare ai forni di Santa Marta, che nel frattempo erano stati anch’essi messi a requisizione insieme con gli attigui mulini.>>. (Manfroni Giuseppe, Sulla soglia del Vaticano, 1870-1901, Bologna, Zanichelli, 1920, p. 40).

Il Manfroni nel suo interessante diario rivela i rapporti del delicato momento immediatamente successivo all’occupazione di Roma tra autorità italiane e Santa Sede. Ricco di fatti, particolari e aneddoti, non rivela però alcun nome, salvo qualche pseudonimo come Nembrod che lo meritò perché aveva sollecitato la pratica per la licenza di caccia. Nembrod si può presumere che fosse un funzionario della Segreteria di Stato che si incontrava con Manfroni in piazza S. Pietro.

Nel 1933 i fornici del Corridore tra chiusi e aperti sono già dieci, ma le esigenze del traffico si fanno più pressanti per cui ne occorrono altri. Nel 1933, si apre un fornice vicino a quello di via di Porta Angelica che dalle due parti reca lo stemma sabaudo con i fasci littori, l’iscrizione

nell’anno

mcmxxxiii xi e.f.

fu aperto

questo secondo fornice

e al disotto lo stemma del Comune di Roma con +s.p.q.r. e fascio.

In preparazione del Giubileo del 1950, insieme alla sistemazione della zona, il traffico chiese nuovi sacrifici, e nel 1948, a lato del fornice di via di Porta Castello se ne aprì un altro per permettere il passaggio del filobus “64”, il segno alle chiavi di volta è lo stemma del Comune e la data mcmiil.

L’ultimo fornice aperto - e speriamo sia veramente l’ultimo - è quello di via del Mascherino che reca lo stemma del Comune e la data mcml.